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L.I.VE al teatro verde dell’isola di San Giorgio

La seconda edizione del festival veneziano, organizzata da ‘Ponderosa Music & Arts’, ha avuto innanzi tutto il merito di utilizzare uno spazio, per anni trascurato, immerso nel verde parco di un’isola vicinissima a piazza san Marco, eppure immersa nella quiete. Gli ultimi tre concerti, di buona qualità, hanno visto protagonisti, nell’ordine, Melody Gardot, l’Orchestra Buena Vista Social Club e Patti Smith.

La giovane cantautrice americana, nata nel 1985 a Philadelphia, ma trasferitasi nel New Jersey, dove ha coltivato la passione per il Jazz e il Folk, ha dato vita ad un gradevole concerto, alla guida di un quartetto – chitarra, contrabbasso o basso elettrico, sassofoni, batteria e percussioni – di musicisti di buon livello. Melody ha saputo attirare l’attenzione del pubblico, grazie ad una voce bene impostata, alternando all’inglese il francese e il portoghese, dilungandosi forse un po’ troppo nel raccontare un suo periodo di vita a Parigi. I brani erano in prevalenza originali, tranne ‘Saudade’, un titolo tra i più conosciuti della cantante capoverdiana Cesaria Evora. Trascinante il pezzo conclusivo, in cui è riuscita a coinvolgere la platea nel cantare il riff, ‘Iemanja’, il nome di una divinità importante nella religione afro-brasiliana. Molto ritmico, il brano si è avvalso della percussione scatenata del batterista, che ha usato due set, a seconda dei brani: quello di una batteria canonica e un altro più ridotto in cui emergeva il surdo, il fondamentale tamburo basso delle scuole di samba brasiliane, accanto ad altri piccoli strumenti latini. Il sassofonista, prevalentemente al tenore, in ‘Les Etoiles’ ha suonato contemporaneamente anche il contralto alla maniera, anche se non con gli stessi risultati, di Roland Kirk.

Essenziale il lavoro del chitarrista e del contrabbassista, mentre la Gardot ha convinto anche per la padronanza sul palco ed un controllo di emissione vocale sorprendente, considerata la sua giovane età. Fa piacere inoltre vederla in buona salute, considerando che dieci anni fa aveva subito un gravissimo incidente – veniva travolta da un Suv mentre pedalava in bicicletta – che le provocò, oltre a gravissime fratture, anche danni neurologici, superati grazie ad una straordinaria forza di volontà e ad una riabilitazione abbinata alla musicoterapia.

A 17 anni di distanza dall’incisione del Cd e a 14 dalla pellicola di Wim Wenders, che la proiettò verso un successo di dimensioni incredibili, l’Orquesta Buena Vista Social Club - pur priva di Compay Segundo, Ruben Gonzalez, Ibrahim Ferrer, Pio Levya, Manuel ‘Puntillita’ Licea, Orlando ‘Cachaito’ Lopez, scomparsi nel corso del tempo – continua a portare in giro la musica cubana, piena di melodie classiche, intramontabili, le più banali e ballabili tra le quali, come ad esempio ‘Quizas, quizas, quizas’, un bolero-cha in scaletta o ‘Cumbanchero’, una guaracha, vengono spesso utilizzate dalle orchestre da ballo di qualità più o meno alta nei veglioni di fine anno. Buena Vista ha eseguito 18 brani, bis compresi, in un set unico di due ore, assai applaudito, grazie alla presenza del cantante e chitarrista Eliades Ochoa e della carismatica cantante Omara Portuondo. Ma i due artisti non erano i soli superstiti di quel momento magico presenti a Venezia. C’erano infatti anche Barbarito Torres, virtuoso del Laud, uno strumento a sei corde doppie, un po’ più piccolo sia della chitarra che del liuto europeo, e il trombettista Manuel ‘Guajiro’ Mirabal. In linea di massima, è apparsa più che accettabile la qualità dei musicisti convocati per il tour, sotto la direzione del trombonista Jesus “Aguaje” Ramos, presente non nello storico disco, ma in altri immediatamente usciti, sull’onda del successo del primo, a nome di Omara Portuondo, Ibrahim Ferrer e Rubén Gonzalez.

L’unica nota stonata, la presenza della cantante Idania Valdes, dotata di una voce che è sì potente, ma monocorde, emessa sempre su uno stesso registro, priva di colori, morbidezze, sinuosità. Tra i brani ascoltati sono emersi il son montuno ‘El Carretero’, interpretato da Ochoa, il bolero ‘Dos Gardenias’ e l’habanera ‘Veinte anos’, affidati al calore della voce e al modo suadente di farla uscire, di Omara Portuondo, la quale, ad 83 anni, pur con comprensibili pause, era sempre sorridente, ironica, felice di cantare e perfino di accennare sul palco alcuni passi di danza. E’ apparso in difficoltà il veterano chitarrista Guajiro Mirabal, anche per la tecnica tipica dei fiatisti latini di soffiare sullo strumento arrivando a dispendiosi suoni sovracuti. Per fortuna aveva vicino a sé il figlio Guajirito, trombettista pure lui, che lo ha assistito nei momenti più critici. Buona l’intesa tra i tre percussionisti, precisi e affidabili ritmicamente: Alberto la Noche ai bongos, Andres Coyo alle congas, già visto a Mestre nel quintetto di Omara sei anni fa e Filiberto Sanchéz ai timbales.

Il maggior numero di presenze si è registrato con il concerto di Patti Smith. La poetessa e cantautrice di Chicago, in forma fisica invidiabile, ad un’età non propriamente giovane (66 anni), ha eccitato la platea in un unico set di 100 minuti, interpretando 17 canzoni. La Smith continua a proporre un rock melodico, rinvigorito dalla sua rabbia, forse di ex appartenente a quel genere Punk, esploso negli anni ’70.

Tra i brani in scaletta, ha colpito uno eseguito in solitudine alla chitarra acustica, in apparenza improvvisato, dedicato a Papa Albino Luciani (Giovanni Paolo I°) e indirettamente a Venezia, di cui fu patriarca, prima di salire al trono di Pietro. Lungo e inconsueto il brano ‘Banga’, che dà il titolo all’ultimo CD uscito lo scorso anno. Si riferisce al nome del cane nel romanzo ‘Il maestro e Margherita’ di Michail Bulgakov. Ad un certo punto, durante l’esecuzione, Patti si è messa ad ululare alla luna, presto imitata dal pubblico, fino ad invocare il nome del poeta Ezra Pound, sepolto nel cimitero veneziano all’isola di San Michele.

L’eccitazione in platea cresce, fino ad esplodere quando la cantante interpreta con tutta la grinta che ha in corpo ‘Because the Night’, utilizzata in Italia come sigla del programma televisivo ‘Fuori Orario’. Il pubblico è ormai ai suoi piedi e ripete a gran voce lo spelling di ‘Gloria’, il brano di Van Morrison reinterpretato in maniera del tutto personale. C’è spazio anche per una dedica, ‘Beneath the Southern Cross’ al chitarrista JJ Cale, scomparso il giorno precedente il concerto. E’ il momento dei bis, richiesti a gran voce: l’energica e gridata ‘People have the power’ e un’arrembante versione di ‘My generation’, un successo degli Who, nella quale, ricordando lo storico quartetto, Patti, imbracciata una chitarra elettrica Fender e fasciatasi la mano destra, verso la fine ha strappato le corde più sottili dello strumento. Un comportamento, il suo, meno eclatante e violento rispetto a quello del gruppo inglese, il quale alla fine di ogni concerto era solito distruggere gli strumenti in maniera parossistica, un modo forse per scaricare la tensione accumulata.

 

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