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L’Attentato a “Charlie Hebdo”, il jihadismo europeo e la nostra sicurezza nel contesto internazionale

Il grave attentato alla redazione del giornale “Charlie Hebdo” ha dato luogo non solo a numerosi interrogativi su quanto è accaduto, ma ha anche posto notevoli domande sulla reale pericolosità del fenomeno jihadista in Europa. E’ utile valutare questi aspetti alla luce di quanto accaduto in passato e analizzando la recente storia del contrasto al terrorismo islamico in Europa.

La sicurezza del luogo della redazione di “Charlie Hebdo”

Innanzitutto consideriamo il luogo dell’attacco: la sede del giornale “Charlie Hebdo”. Un luogo ritenuto sicuro per ospitare la redazione. Accessi controllati tramite porte di sicurezza e da un agente di polizia. Un altro agente di scorta garantiva la sicurezza personale del direttore Stephane Charbonnier. Si tratta di misure atte a garantire un livello di sicurezza sufficiente se la minaccia ipotizzata era valutabile nell’attacco di un singolo folle, di un singolo terrorista, armato di coltello o di pistola. Sufficiente anche per garantire una discreta sicurezza nei confronti di attentati dinamitardi. Insufficiente se il livello della minaccia sale. Del tutto insufficiente di fronte ad un commando di due, o tre, persone (sul numero effettivo di attentatori sussistono ancora dubbi), pesantemente armate con AK-47 e, a quanto pare, un lanciagranate RPG.

Di fronte a questo genere di armamento, in uno scontro a fuoco ravvicinato e imprevisto, c’è poco da fare. Di fronte a questa potenza di fuoco, solo una sicurezza di livello più alto, come quella che troviamo in alcuni settori sensibili degli aeroporti, può dimostrarsi atto a contenere la minaccia.

Ma, la minaccia nei confronti di “Charlie Hebdo” e del suo direttore, era stata valutata sulla base di casi precedenti, occorsi in passato: ferimenti, accoltellamenti, singoli individui con pistole. L’assalto dello scorso 7 gennaio, si pone su di un altro livello, non prevedibile o comunque non valutato come possibile.

Le armi: ipotizzarne la provenienza è prematuro, ma procurarsele non è impossibile.

Gli AK-47 utilizzati sono di due versioni leggermente differenti. Non possiamo, ovviamente, sapere dove gli attentatori se li siano procurati. Tuttavia occorre ricordarsi che, in passato, alcune cellule terroristiche jihadiste si procuravano le armi direttamente in Europa. Armi prodotte in Europa, acquistate da trafficanti, e mandate poi in nord africa o in altre aree del medio oriente. Può sembrare strano. Ma, esistono diversi casi documentati.

Gli AK-47 sono armi reperibili in buona parte dell’Europa orientale. Trasportabili in Francia, occultate all’interno di autovetture modificate. Anche in questo caso esistono numerosi casi che documentano questo genere di traffici. Lo stesso vale per il trasporto attraverso i Balcani. La Turchia e Siria sono ad un passo da queste zone. Non a migliaia di chilometri di distanza. E’ vero anche che esistono luoghi, nel sud della Francia, molto amati da certi trafficanti d’armi. I quali, però, non sono certo interessati a vendere due (o più) AK-47 in Francia (o più in generale in Europa) a una cellula di jihadisti. I trafficanti d’armi non sono stupidi. Sanno che a fronte di un pressoché nullo guadagno corrisponderebbero un sacco di noie. Meglio continuare a restare a prendere il sole in Europa, vendendo armi, in quantità enormi, ma da un’altra parte del mondo.

Ciò che è importante notare è che le armi (e le munizioni non dimentichiamolo) non viaggiano mai con chi dovrà poi utilizzarle. All’interno delle reti jihadiste gli incarichi vengono suddivisi fra diverse cellule. Una cellula procura le armi. Poi le cede ad un’altra cellula deputata al trasporto. Che infine le consegna ad un’altra cellula, per un eventuale utilizzo o per ulteriori passaggi. In tutti questi trasferimenti, le persone di diverse cellule che entrano in contatto, fra loro, sono molto poche. Spesso pochi singoli individui. In questo modo l’eventuale arresto di un componente di una determinata cellula non compromette interamente le altre cellule in contatto con gli arrestati. Così facendo, i membri non arrestasti, proprio perché sconosciuti dagli arrestati, possono più facilmente ricostituire la cellula o trasferirsi in altre città.

La dinamica e l’addestramento

Veniamo al commando. Addestratissimo secondo alcuni. Molto meno secondo altri. E non certo perché uno dei due abbia perso una scarpa. Ma, ciò che appare dalle immagini è in effetti contrastante. Il commando del video, composto da due uomini, si muove in maniera non propriamente corretta. Molto spesso i due terroristi si trovano troppo vicino, guardano nella stessa direzione e si affiancano, diventato potenzialmente un facile bersaglio. Tuttavia il modo in cui sparano non lascia dubbi. Niente raffiche. Solo colpi singoli. Esplosi con precisione. Anche contro bersagli a distanza. Anche contro le auto della polizia. Il kalashnikov appare, molto spesso, imbracciato correttamente, saldamente, vicino al corpo. Non protraggono le armi in avanti sparando a casaccio. Chi spara e gestisce le armi in questo modo è addestrato. E non è la prima volta che spara o sostiene un conflitto a fuoco.

Vi è poi il modo in cui viene assassinato il poliziotto a terra, già ferito. Più che l’estrema freddezza e il modo in cui l’attentatore si muove a rilevarci il suo grado di addestramento. Cammina ad una velocità ben precisa, alla quale sa di avere la capacità di spostarsi e al tempo stesso garantirsi la velocità di reazione necessaria ad affrontare una o più impreviste minacce proveniente dal basso o da in fronte a se. L’arma viene tenuta verso il terreno, sapendo di poterla alzare rapidamente di quel poco che basta per colpire un eventuale obbiettivo. In questo caso l’attentatore dimostra un buon grado di addestramento. La freddezza e il modo in cui colpisce il poliziotto, ferito a terra, la possiamo ritrovare e rivedere nei numerosi video in cui appaiono i combattenti che si addestrano nei campi afghani o siriani. Con questo non intendo sostenere che gli attentatori presunti, Said e Cherif Kouachi, siano stati addestrati in quei campi come in altri presenti in diversi stati. E’ vero che c’è chi sostiene che con un kalashnikov può sparare anche un bambino. Ma, nessuno spara in questo modo, con queste armi, nel suo primo conflitto a fuoco. E’ innegabile che un discreto livello di addestramento ci sia.

Concludendo, sanno sparare, sono dei buoni tiratori, ma non sanno muoversi come combattenti ben addestrati. Forse perché il centro di una metropoli europea, come Parigi, non è esattamente simile al luogo dove avrebbero potuto ricevere un ipotetico addestramento, come il deserto mediorientale, o i sobborghi di una cittadina siriana. Forse perché in un’azione di questo genere, anche chi è addestrato può commettere degli errori.

L’intelligence Francese e il contrasto al GIA

Nove persone arrestate. Non stiamo parlando di terroristi solitari. Ma, di una cellula jihadista. A questo punto però, occorre fare un passo indietro, per avere una visione d’insieme. Molto spesso l’intelligence francese viene descritta come tra le migliori al mondo. In particolar modo nella lotta ai fenomeni legati al terrorismo di matrice islamica e al jihadismo con basi in Europa. Queste valutazioni sono in larga parte corrette, perché la Francia e la sua intelligence hanno avuto modo di studiare ampiamente e contrastare a lungo il terrorismo islamico già a partire dagli anni novanta. In quel periodo la Francia aveva, sul proprio suolo, diverse cellule terroristiche del GIA algerino. Ciò spinse l’intelligence francese a dare il via una serie di attività d’infiltramento delle cellule terroristiche islamiche, presenti nel territorio francese.

Frequentemente, occorre ricordarlo, queste attività sono state rese possibili dalla collaborazione volontaria di cittadini francesi mussulmani che, in un modo o nell’altro, dopo essere entrati in contatto con queste cellule jihadiste, non ne avevano condiviso gli scopi e i modi operativi, compresi quelli terroristici, e conseguentemente si offrivano di collaborare con le autorità francesi. L’esatto opposto di quello che si è soliti credere. Non erano le agenzie di intelligence a cercare contatti e tentare di ottenere un inquadramento dei propri uomini nelle cellule jihadiste, ma erano componenti di quest’ultime che si offrivano di collaborare con le autorità.

Durante questo periodo l’intelligence francese fu in grado di compiere un notevole salto in avanti nella comprensione del fenomeno jihadista. Individuando i canali di approvvigionamento di armamenti ed esplosivi, nonché i contatti europei e mediorientali che garantivano gli spostamenti di uomini e risorse finanziarie. A ciò si aggiunsero informazioni sulle tipologie di addestramento militare, sugli armamenti a disposizione dei terroristi e sui metodi utilizzati per fabbricare ordigni esplosivi.

Inoltre, con una massiccia raccolta di immagini fotografiche scattate all’esterno di particolari luoghi di culto islamici, fu possibile ricostruire gli spostamenti di numerosi jihadisti in diverse città d’Europa. Giungendo ad individuare nuove cellule terroristiche. Le capacità sviluppate dall’intelligence francese, nel contrastare il fenomeno jihadista, divennero il punto di riferimento per l’intelligence statunitense dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

La DGSE e il contrasto dei nuovi Jihadisti

L’intelligence francese dagli anni dello SDECE e del contrasto al GIA algerino, ai giorni odierni, è stata più volte riformata. Sono lontani i tempi in cui alla mensa dello SDECE si pranzava con l’argenteria del direttore, il Conte de Marenches. Oggi la DGSE è un’altra cosa. Un’agenzia di intelligence moderna, dotata di sofisticate tecnologie a disposizione, in particolar modo SIGINT. Tuttavia, per contrastare le cellule jihadiste, le migliori risorse sono ancora gli uomini sul terreno e da questo punto di vista gli attentati di Tolosa, Montauban, Bruxelles e Parigi rappresentano dei fallimenti. Oggi sappiamo che negli scorsi tre anni la DGSE ha fallito più di una volta.

Dall’altro lato non possiamo sapere quanti siano i successi e la loro validità. Occorre ricordare che rispetto agli anni del contrasto al GIA vi sono stati dei cambiamenti rilevanti. A partire dai profili dei terroristi islamici e dei jihadisti. Se al tempo del GIA le cellule erano costituite da algerini di recente immigrazione, o dalle prime generazioni di giovani, d’origine algerina, nati in Francia, oggi sono trascorse ulteriori generazioni e le figure dei nuovi terroristi sono differenti.

Ragazzi francesi nati per lo più negli anni ’80, come nei casi di Mohammed Merah, l’attentatore di Tolosa, Mehdi Nemmouche, l’attentatore di Bruxelles e Said e Cherif Kouachi, i presunti attentatori di Parigi. Persone cresciute in contesti europei e occidentali, ma che, giunti ad un determinato punto della loro vita, hanno iniziato a percepire come estranei e combatterli. I Jihadisti di oggi sono soggetti inseriti nel contesto sociale in maniera molto differente dai loro predecessori che militavano nel GIA o che si recavano in Afghanistan negli anni novanta per ricevere un addestramento da Mujaheddin e intraprendere il jihad. Anche se, molto probabilmente, nelle prossime ore verranno alla luce chiaramente alcuni punti di contatto fra queste diverse generazioni di terroristi. Tuttavia per le intelligence francesi, e più in generale europee, si tratta di fenomeni ed elementi nuovi, ancora da comprendere pienamente.

Dall’altro lato esiste una certa continuità fra alcuni elementi di rilievo del terrorismo jihadista francese dai tempi del GIA e dell’Afghanistan, alla più recente guerra in Iraq e alla odierna crisi siriana.

La presenza dell’ISIS e la destabilizzazione in Medio Oriente

L’aspetto più significativo è sicuramente l’influenza che la crisi siriana ha sul mondo occidentale. Non solo perché la presenza delle milizie dell’ISIS nella regione mediorientale ha dato vita a un fenomeno del tutto simile a quello verificatosi negli anni novanta fra Europa e Afghanistan. Alcune centinaia di cittadini europei, si sono recati in Siria per combattere nelle fila dell’ISIS, ricevendo un addestramento paramilitare. Facendo poi ritorno nei loro paesi europei d’origine. Nello stesso modo in cui, negli anni novanta, molti fondamentalisti islamici si sono recati in Afghanistan per divenire mujaheddin e poi fare ritorno in Europa.

Un fenomeno, quello siriano, che si è sviluppato in un periodo piuttosto breve, obbligando le agenzie di intelligence europee ad un rapido riadattamento e ridispiegamento delle risorse. In alcuni casi, non sempre disponibili nel breve periodo. Questo genere di processi, questi rapidi cambiamenti, frequentemente non danno luogo a risultati sempre efficienti nell’immediato. Possono verificarsi errori di valutazione, anche gravi.

Questi sono, a mio giudizio, i motivi reali dei fallimenti che hanno consentito gli attentati di Tolosa, Bruxelles e Parigi. La crisi siriana, e con essa la crisi irachena, sono l’Afghanistan d’Europa. Sono crisi politiche e che sono situate esattamente sui nostri confini. L’instabilità che continuano a riversare nel contesto internazionale non coinvolge, e non coinvolgerà mai, solo ed esclusivamente il Medio Oriente. Ma, riguarderà sempre e comunque più da vicino tutti gli stati europei e l’Unione Europea stessa.

Oggi, il miglior modo per risolvere queste problematiche e contrastare il terrorismo di matrice jihadista, risiede nell’eliminare l’ISIS dal teatro mediorientale.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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