• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

Home page > Tempo Libero > Fame&Tulipani > Il Km O è davvero sostenibile? L’esempio dello zafferano

Il Km O è davvero sostenibile? L’esempio dello zafferano

[illustrazione da Science Photo Library]

[illustrazione da Science Photo Library]

Quando si parla di KM 0 in genere si associano i concetti di cucina locale, ricette tradizionali, alta qualità dei prodotti, sostenibilità del territorio, economia locale. Si dice che in questo modo si contribuisce a far diminuire l’inquinamento (è davvero così?), che si risparmia perché possiamo fare a meno dell’intermediario che s’intasca una parte considerevole e siamo più felici perché stabiliamo “relazioni sociali” con il contadino dove andiamo a comprare: ammetto che mi sfugge il senso visto che pago la sua prestazione come in tanti altri casi, ma non è che vado al cinema con l’idraulico o con il contadino di fiducia, loro stanno lì per farsi pagare -giustamente- una prestazione professionale. Comunque.

Se prevalesse questo orizzonte significa che, ad esempio, un milanese dovrebbe rinunciare al suo risotto? Infatti l’ingrediente che lo rende “tipico” è lo Zafferano, che in Italia viene coltivato prevalentemente in Abruzzo e in Toscana e a seguire in Sicilia. Lasciamo perdere la sua provenienza originaria che è dell’Asia Minore e che arriva a noi grazie alla storia dei traffici commerciali: questo aspetto in fondo vale per tanti altri prodotti che ormai consideriamo “tipici” come i pomodori, le patate, i peperoni.

Ok, torniamo alla nostra “polvere d’oro”. Un milanese che volesse rispettare gli aspetti etici ed ambientali dovrebbe sostenere che il “risotto alla milanese” non può essere considerato un piatto tipico locale (cioè a km 0).

Ma un po’ di storia può aiutarci a capire. Molte ricette tradizionali in realtà sono il frutto di scambi tra paesi lontani e di sperimentazioni anche casuali. La ricetta di questo gustosissimo piatto ha due ingredienti principali: il riso e lo zafferano. Il risotto alla milanese fa la sua comparsa alla fine del 1500 per opera di manovalanze straniere: fu frutto di una casuale sperimentazione di un apprendista (nell’epoca delle botteghe artigiane si chiamavano allievi) di un vetraio belga che stava lavorando alle vetrate di quello che sarebbe diventato il Duomo di Milano, fatto sta che l’allievo dosò nell’impasto lo zafferano ottenendo un bel tono di giallo, lo zafferano fu poi utilizzato nel risotto del pranzo di nozze della figlia del mastro vetraio. Curioso anche che l’altro ingrediente, il riso, all’epoca veniva coltivato 700 km più in là, nel napoletano. E arrivò a Milano grazie alle alleanze politico-familiari tra gli Aragonesi e i Visconti. Ma andiamo avanti.

Lo zafferano viene prodotto per il 90% in Iran (oibò) e il restante 10% se lo spartiscono l’India, la Grecia, la Spagna e in piccola parte l’Italia, tanto per dare dei numeri noi produciamo 400kg/anno contro una produzione mondiale di 178tonn/anno (cit. Progetto Saffron, 2006). Gli unici che lo esportano in maniera consistente sono iraniani e spagnoli. Bene.

E perchè in Italia -per dire- non ne possiamo coltivare di più? E perché non coltivarlo direttamente in Lombardia, dove il consumo del piatto in questione è sicuramente maggiore, evitando così trasporti, inquinamento ecc. ecc.? In fondo l’ambiente di coltivazione, la fisiologia della specie e il clima sembrano poterlo permettere. Infatti lo zafferano cresce meglio su terreni interessati da media piovosità, situati ad altitudini medie di 5-700 metri, quindi in territori con inverni meno rigidi e vuole un terreno di medio impasto, ma cresce bene in qualsiasi tipo di terreno e resiste ad un ampio intervallo di temperatura (dai -15° ai 40°). Insomma tutte condizioni abbastanza diffuse nel nostro paese e in molti territori lombardi. Forse dipende da scelte di tipo economico e di resa che vanno confrontate con un’economia di scala che tiene conto del fabbisogno limitato. Fatto sta che per produrre lo zafferano occorre molta manodopera (che va pagata) perché viene raccolto a mano per evitare di rovinare il prodotto e l’intero ciclo (raccolta, mondatura, essicazione) va fatto nello stesso giorno. Per le rese, si ottengono 10 gr. di zafferano da 300 bulbi che occupano una superficie di 15-20 mq circa.

Però mai arrendersi. Dopo una sperimentazione durata dieci anni lo scorso anno sono stati coltivati circa 2000 mq in Valtellina e i conti sono presto fatti per capire che non è possibile sostenere un prodotto a km 0 per un piatto tipico che viene consumato sul posto in quantità che non sarebbero in grado di soddisfare il consumo lombardo: ci vuole un mq per mezzo grammo. A voi i calcoli e le comparazioni con le rese di altri prodotti (cioè al contadino conviene coltivare prodotti con maggiore resa a parità di terreno).

Quindi basta incrociare dati diversi ma omogenei all’argomento per fare delle valutazioni che spiegano perché a volte parole KM0, Filiera Corta, prodotto tipico corrispondono a slogan che idealizzano una realtà oggi molto di moda, ma che mi sembra molto poco praticabile (chi rinuncerebbe a tanti piatti gustosi e soprattutto chi negherebbe apporti nutrizionali di prodotti che non sono presenti in alcune zone?).

Ora, lo zafferano non è essenziale nella dieta e non sfamerà la popolazione mondiale, ma nei prossimi articoli proverò ad indagare se il Km 0 è una prospettiva praticabile e conveniente come affermano i sostenitori di questa prospettiva.

Riferimenti utilizzati: Lombardia Coldiretti – News ed Eventi; Go Green, News e RubricheAgrinnovazione Regione Sicilia; Risotti.it

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares