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"Io sono lo Stato": orgoglio e senso di onnipotenza di Comandanti della Benemerita che esaltano il potere e il dominio

Il volto scavato, Yulia Paievska, soprannominata “Taira", paramedico ucraino, caduta in mano ai russi nell'aprile dello scorso anno, racconta alla Commissione di Helsinki la verità sugli orrori dell'assedio di Mariupol e sulle torture che ha subito in novantaquattro giorni di prigionia: alla domanda di uno dei suoi torturatori, "Sai perché ti facciamo questo?", risponde asciutta

"Perché potete."

È da molto tempo ormai che loro possono. Dapprima che si imponessero con prepotenza all'Ucraina e alle sue genti. Una prepotenza che in quanto prevaricazione riflette l'atteggiamento di chi, in modo del tutto arbitrario, vuole imporre la sua volontà, anche ricorrendo a coercizioni e soprusi. Una prepotenza che a tracciare una modalità espressiva caratterizza in genere relazioni violente e l’uso di aggressività verbale e fisica. Ma loro sono così - mai un'istanza che li chiamasse a rispondere.

Nessuna coscienza a rimordere.

Nessun cuore a ispirare.

Nessun mondo a mediare. 

Lontano da obbligati istituti conciliativi civili o penali, da inani condanne in gelide aule di tribunale a covare rancori e risentimenti. Piuttosto un incontro, una disponibilità a sospendere il giudizio per permetterci di comprendere e, così, di trovare la strategia più adatta per affrontare, gestire, sciogliere la situazione e i conflitti che la sottendono: una risposta, dunque, che esige per noi una prospettiva più pensata e autentica. 

Tuttavia non sono i soli. Non serve un teatro di guerra in Ucraina a disegnare il volto della rovina. La violenza, l'arroganza, la prepotenza dominano il linguaggio, si inseguono correndo nelle strade, nei vicoli, nelle corti di palazzi e di topaie, serpeggiano nell'immaginario, nei sogni, nelle convinzioni, si insinuano fra i banchi di scuole e chiese, di officine e dipartimenti, di fori e reparti, si barricano nelle stanze, nelle case, dietro ordini, vestono alla moda e talvolta grandi uniformi, come quelle pluridecorate di Comandanti di Stazione della Benemerita qui a raccontarsi.

Come Yulia, lei è donna, e a differenza mai militare impegnata sul campo di battaglia, destino vuole. Quando incontra la prima volta il pubblico ufficiale è per segnalare l'indifferenza di un graduato sottoposto nel ricevimento di una richiesta di presentazione di istanza di ammonimento al Questore - "Torni domani, non c'è nessuno in tutta la casa... del resto le molestie non sono cosa importante" - unicamente per vedersi trattare la questione con aria di sufficienza. 

E così è a insistere, nel tempo, in ogni circostanza successiva: le nega l'ascolto e la parola in un momento di ingerenza non richiesta in strada, le intima l'ALT a braccio teso per dettare una distanza già data, le permette l'accesso agli uffici della Stazione per la ratifica di atti legittimi solo alle sue condizioni (è casa sua, comanda lui e le regole sono le sue, ingiunge minaccioso), comanda pleonastiche operazioni di decontaminazione al suo passaggio. 

Lei lo querela, pur sapendo che la sua istanza non sarà accolta, infondata la notizia di reato, non sono condanne e punizioni che in fondo la muovono. Lo ha fatto per lasciare un segno, una traccia della sua intima resistenza e opposizione ai soprusi, lo ha fatto perché lo deve a sé stessa anzitutto, la sua sola concessione alla stravaganza, è così che apparentemente funziona in uno stato di diritto. Lui s'informa all'Istituto di Salute Mentale cittadino se chissà è affidata alle loro cure, così le giunge. 

Passa il tempo, lei deve tornare negli uffici per ratificare un atto ancora, non è lavoro di Comandanti, nel rispetto di un dettato della legge non corre l'obbligo di conferire. Lei chiede di non formalizzare in sua presenza, non si sente a suo agio. A lui non interessa, lui s'impone prepotentemente, il giusto potere della dominazione assoluta, la casa è sua, qui comanda lui, lui è lo Stato, è a ripetere biecamente, può andare anche altrove. 

Lui lo può fare, con la connivenza di Capitani che non vedono ragioni per favorire un incontro chiarificatore, lui è uomo stimato e gode della loro protezione, evidentemente ne ha bisogno - e la violenza verbale qui mera percezione soggettiva. Nessuna istanza a rispondere è pronta, alla sola domanda che per lei conta.

Perché? tanto accanimento, tanta ostilità, tanto veleno. 

La buona pratica tradita, ciò che resta sul campo, tristemente, è il riflesso di un uomo al di là dell'abito che si sottrae alle responsabilità personali, che viene meno alla propria dignità, che va "al di sotto" di ogni partecipazione al mondo, che fa della viltà la paradossale affermazione di sé. 

E lo fa, perché può.

Sabina Greco

 

 

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