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Invalsi: fermate ’sta pazzia!

Le ri-forme che stanno de-formando la nostra scuola, improntate alla standardizzazione dell'insegnamento ed al finto efficientismo tecnologico, stanno passando sulla testa dei docenti ma, soprattutto, sulla pelle di tanti studenti. Ma siamo sicuri che fuori d'Italia gli altri insegnanti stanno subendo passivamente queste pretese 'innovazioni'? 

La verità è che - proprio negli USA dove sono nati i 'test' scolastici - c'è un grosso movimento di opposizione e di denuncia degli effetti perversi di questi metodi sull'educazione dei ragazzi e sull'occupazione dei docenti. Riusciremo a capirlo anche noi e a mandare a quel paese chi vuole "invalsizzare" la scuola italiana?

RIFLESSIONI DI FINE ANNO (SCOLASTICO)

Anche quest’anno scolastico si è chiuso con le solite statistiche pubblicate dai giornali sulla percentuale di ammessi e non ammessi nei vari livelli d’istruzione e con gli abituali commenti sulle prove nazionali per gli esami di licenza media o sulla valenza delle tracce dei temi di maturità.

Il fatto è che il baraccone mediatico segue sempre più stancamente le vicende di una scuola sballottata fra riforme e controriforme, ma sulla quale ormai si è smesso di dibattere sul serio, preferendo confluire nel pensiero unico dell’efficienza e del merito come leve dell’innovazione.

Gli stessi insegnanti – al di là delle vertenze sindacali che ne vivacizzano ogni tanto la rassegnata piattezza di chi è abituato ad “attaccare il ciuccio dove vuole il padrone” – non stanno dando segni evidenti di opposizione ad una “riforma” (ma forse sarebbe meglio parlare di “de-forma”) della scuola che continua a marciare sulle rotaie obbligate di una visione aziendalista dell’istruzione, dalla quale – non a caso – da tempo è stato espunto l’aggettivo “pubblica”.

Le parole d’ordine che piovono dalle circolari ministeriali sono ovviamente rassicuranti (trasparenza, efficienza, valutazione oggettiva etc.), ma i risultati che esse si propongono di ottenere vanno in ben altra direzione. Classificare, standardizzare e selezionare sembrano essere diventate l’ossessione della scuola italiana, travolta da un’ansia da prestazione nei confronti dei partners europei e preoccupata di competere in una specie di hit parade mondiale dei risultati formativi, alla quale si continua a dare molto credito. Come se avesse senso raffrontare i dati della Svezia con quelli della Corea o anche quelli del Trentino/Sud-Tirol con quelli della Calabria/Sud Italia…

L’INVALSI, più che un ente convenzionato, sembra essere ormai diventato il motore stesso del MIUR, il “think-tank” che dovrebbe modernizzare la scuola italiana, “allineandola” (ecco un altro dei termini di moda…) agli “standard” internazionali. L’ambiguità dell’espressione anglofila (“serbatoio di pensieri” ma anche “carrarmato ideologico”) è comunque utile per capire come mai questa prestigiosa istituzione da anni riesca a dettare l’agenda dei nostri ministri dell’istruzione, siano di centrodestra o di centrosinistra.

Per contenere e vanificare l’opposizione all’invadente standardizzazione dei “test” nazionali da parte di alcune organizzazioni – sindacali e culturali – si sono escogitati così i sistemi più squallidi, fra cui l’inserimento di queste pratiche tra i compiti ordinari dei docenti all’interno di una legge finanziaria, oppure il ricorso a “circolari ministeriali” spacciate per fonti normative. Il risultato è che, passo dopo passo (come avrebbe detto qualcuno…), la mutazione genetica della scuola italiana è sempre più evidente, colpendo anche l’istruzione superiore e, di striscio, perfino la formazione universitaria.

Se poi si aggiungono le trovate ministeriali sulla “de-materializzazione degli atti” e l’imposizione alle scuole del “registro elettronico” – cui di recente ho già dedicato un commento – abbiamo un quadro abbastanza completo di una situazione che sta sfuggendo di mano sempre più a chi nella scuola ci lavora, e che avrebbe quindi il diritto di dire la sua su queste pretese innovazioni.

Lo stesso criterio per la valutazione dei risultati conseguiti dagli alunni – sia trimestrale sia finale sia di esame – riducendo tutto ad un meccanismo automatico, di natura esclusivamente aritmetica, sta svilendo il ruolo stesso dei docenti. E, soprattutto, mi sembra che stia avvilendo la collegialità e la sovranità di giudizio dei consigli di classe, ridotti a ratificatori impotenti delle banali somme delle singole valutazioni, all’insegna di una “semplificazione” che vuole a tutti i costi rendere semplice ciò che, come la valutazione in campo educativo, è invece maledettamente complessa.

Il guaio è che chi cerca di opporsi alla “gioiosa macchina da guerra” dell’invalsizzazione della scuola italiana viene subito bollato come un ribelle sinistrorso, o quanto meno, come un vetero-insegnante, di poco larghe vedute e sempre spaventato dalle novità. Ciò dipende dal solito provincialismo della cultura e dei media italiani, che non sanno o non vogliono guardarsi un po’ attorno, per verificare se le “novità” che si vogliono imporre al nostro sistema educativo siano poi così…nuove e, soprattutto, se sia proprio vero che altrove obiettivi comuni e prove nazionali sono state accolte come doni della provvidenza.

GUARDIAMOCI UN PO’ ATTORNO

La verità, in effetti, è abbastanza lontana da quella che ci viene dipinta. In Francia, nel Regno Unito e soprattutto negli USA gli insegnanti stanno scendendo in piazza, sempre più numerosi e incavolati, per far valere i loro diritti sindacali, ma anche per salvaguardare la loro dignità di professionisti della formazione scolastica.

Negli Stati Uniti – dove “common core” e “tests” sono già stati introdotti da decenni nelle legislazioni statali e federali – è in atto una vera e propria rivolta dei docenti e perfino dei presidi, per denunciare l’invadenza stomachevole e socialmente selettiva delle “prove nazionali”, da noi esaltate come progressiste. La chiusura di decine di scuole per volta – utilizzando gli scarsi risultati nei test come banco di prova della loro inefficienza educativa – ha reso fin troppo evidente la connessione fra questi strumenti di pretesa valutazione delle prestazioni culturali degli studenti e la subdola selezione dei docenti e degli istituti che – a loro insindacabile parere – meritano di sopravvivere ai tagli, statali e federali, nelle spese per l’istruzione.

Non sembra essere bastato che migliaia d’insegnanti americani si siano ormai rassegnati ad insegnare “per” i test piuttosto che “con” i test, stravolgendo la loro autonomia professionale e livellando l’offerta formativa a danno delle classi più povere. Questa standardizzazione non è stata evidentemente capace di evitare accorpamenti e chiusure d’istituzioni scolastiche elementari e medie ed una pesante stretta anche nelle scuole superiori.

Ecco perché si è creato un diffuso movimento di insegnanti che hanno, per così dire, fatto obiezione di coscienza a queste astruse pratiche selettive. Ed ecco perché – come riportava il Washington Post lo scorso 23 maggio in un articolo intitolato “Perché i test sugli obiettivi comuni hanno fallito” una cinquantina di presidi di scuole di vario ordine e grado dello Stato di New York hanno deciso di scendere anche loro in campo, indirizzando una lettera rispettosa, ma sicuramente molto dura, al Commissario Statale all’Istruzione John King

Ne riporto alcuni passi, nella mia traduzione:

“Il risultato è che molti studenti hanno trascorso molto del loro tempo leggendo, rileggendo ed interpretando domande difficili e confuse sulle scelte degli autori circa la struttura e l’elaborazione di testi informativi [...] ma lo hanno fatto a discapito di molti degli altri profondi e ricchi obiettivi comuni…enfatizzati da stato e comuni. […] In Inglese, gli stessi standard e tutto quanto noi pedagogisti sappiamo essere vero in materia di lettura e scrittura ci dicono che interpretazioni molteplici di un testo possono essere non soltanto possibili, ma perfino necessarie ad una lettura approfondita. Tuttavia, per molte domande a scelta multipla, la distinzione tra la risposta esatta e le altre era quanto meno ridicola. Il fatto stesso che gli insegnanti riferiscono di disaccordi tra loro su quale risposta a scelta multipla fosse quella corretta, in diversi punti della prova nazionale di lingua, è indice che questa modalità di prova non è adatta agli studenti. [...] Questi esami determinano la promozione degli studenti. Determinano quali singoli alumni delle scuole possono iscriversi alla scuola media ed a quella superiore. Essi sono la base sulla quale lo Stato e la Città valuteranno – pubblicamente ed in privato – gli insegnanti. Gli esami determinato se una scuola potrebbe fallire ad uno scrutinio più accurato, dopo una relazione statale o cittadina – collegata ai test – che certifichi risultati scadenti, e se rischia perfino di essere chiusa. Queste realtà ci danno una sempre più grande sensazione dell’urgenza di essere rassicurati che i test riflettano le nostre più grandi aspirazioni per il processo d’apprendimento degli studenti…”

Come mai da noi, nel Belpaese, i capi d’istituto non solo non sentono il dovere di esprimere le loro prevedibili perplessità, ma addirittura si sentono vincolati da una specie di giuramento di fedeltà ad un’amministrazione statale della scuola che, a sua volta, sembra essersi legata in un patto indissolubile con le pretese “teste d’uovo” dell’Invalsi ?

Come mai il solo fatto che alcuni docenti mettano in discussione la validità, la legittimità ed obbligatorietà delle “prove nazionali” da essa confezionate sembra essere diventato per molti presidi una specie di eresia da combattere strenuamente, un reato di “lesa maestà” ? Eppure i 50 capi d’istituto che hanno sottoscritto la lettera al New York State Education Commissioner non hanno avuto nessuna remora a denunciare anche il grosso affare che c’è sotto questi test standardizzati, soprattutto quando dietro la loro confezione e somministrazione c’è un colosso dell’editoria come la Pearson, che si vanta nel suo sito web di aver monopolizzato anche il settore delle prove per testare le istituzioni scolastiche.

Scrivono i presidi newyorkesi: “Siamo infine preoccupati che si ponga il destino di così tante comunità educative nelle mani della Pearson – una società con una storia di errori (il più recente quello sul punteggio inesatto delle prove della Città di New York nel programma per i bambini dotati e di talento – il 13% di quelli da 4 a 7 anni che hanno sostenuto l’esame sono stati vittime di errori… ( La Pearson ha un contratto triennale col Dipartimento dell’Istruzione, per questo solo test, del valore di 5,5 milioni di dollari)…”.

DE-INVALSIZZARE LA SCUOLA ITALIANA

Ma come mai da noi nessuno va a ficcare il naso nel business editoriale delle “prove nazionali”, con le mille pubblicazioni proposte agli studenti per “esercitarsi” ad una pratica didattica che, evidentemente, è considerata ancora poco praticata nella scuola. Eppure si direbbe che tutti la vedano destinata a soppiantare quelle che troppi docenti si ostinano a seguire, come le verifiche orali dell’apprendimento, la personalizzazione dei percorsi, il lavoro di gruppo ed in gruppo, l’elaborazione personale di testi scritti di vario genere ed altre simili pratiche rètro…..

Come mai nessuno mette il naso neppure sulle convenzioni fra il MIUR e quell’INVALSI di cui poco si parla, ma che sembra esercitare un’influenza decisamente smisurata per la sua natura di medio ente, con un organico di appena 9 ricercatori su un totale di 21 persone impiegate nelle varie funzioni. Eppure anche da questo“Ente pubblico di ricerca con personalità giuridica di diritto pubblico ed autonomia amministrativa, contabile, patrimoniale, regolamentare e finanziaria, sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca” – come un po’ pletoricamente si autodefinisce – dipendono le sorti di una scuola come quella italiana, che non ha certo nulla da invidiare a quelle europee o transatlantiche, ma che è da tempo affetta da un provinciale complesso d’inferiorità nei confronti delle “prestazioni” degli altri Paesi.

Come può essere che dalle verifiche predisposte da questo Ente – peraltro commissariato dal lontano 2004 e pesantemente sotto organico – dovrebbe dipendere il riscatto della scuola italiana ed il raggiungimento di obiettivi di alto livello sul piano internazionale? E, soprattutto, perché mai il lavoro di testing spettante all’INVALSI lo dovrebbero svolgere gli insegnanti italiani nelle loro ore di docenza e, molto spesso, senza neppure condividerne le metodologie?

L’ultima prova nazionale d’Italiano alla quale i nostri ragazzi si sono dovuti sottoporre, in coda ai soliti esami scritti di licenza media, prevedeva, fra l’altro, la risposta ad alcuni curiosi quesiti, riguardanti un brano di Vincenzo Cerami, intitolato “Un rumorino crudele” . Ebbene, è mai possibile che tanti docenti e capi d’istituto non sentano anche loro il fastidioso rumorino“ che proviene dalle scricchiolanti strutture di un Ministero che ha bisogno di ricorrere ad un ente esterno per confezionare un pacchetto di domande su un paio di testi letterari o giornalistici e su alcune questioni grammaticali?

Il secondo brano su cui si appuntavano le domande del test INVALSI era un articolo giornalistico sullo straordinario fenomeno editoriale legato alla serie di Harry Potter ed ai suoi amici maghetti. Il testo si concludeva con queste parole: “Se milioni di ragazzi di culture diverse lo leggono con fame non è solo questione di mercato: è anche questione di cuore. E il cuore di un ragazzo bisogna ascoltarlo con le parole che ha, anche se suonano assai semplici.”.

Bene, bravi! Ma siamo proprio sicuri che il MIUR metta fra le sue priorità l’ascolto del “cuore” dei nostri ragazzi, visto che una scuola sempre più standardizzata e omologata va in direzione esattamente contraria a quel ruolo educativo e di guida, alunno per alunno, che sembra aver poco a che fare coi criteri di efficienza, di oggettività e di selezione tanto sbandierati?

UN RAP CONTRO LA SCUOLA STANDARDIZZATA

Bene hanno fatto allora gli studenti USA a lanciare il loro grido contro questa stupida imposizione di un metodo che serve solo ad aumentare le differenze socio-culturali e a tagliare i costi dell’istruzione pubblica, con la scusa dell’efficienza. E lo hanno fatto a modo loro, con un video che diffonde un efficace “rap” di Jeremy Dudley, intitolato “Stop this madness!”, cui s’ispira anche il titolo di questo commento. Riporto di seguito alcuni dei versi più significativi, che ho cercato di esprimere in italiano:

Fuori contatto e fuori sintonia noi siamo / sotto-insegniamo, però sovra-testiamo, /proprio dove li dovrebbero investire / invece i fondi li vogliono tagliare / ognuno, ragazzi compresi, è iper-stressato/.
Diteci allora come e perché è accaduto /che, pensando ai ragazzi, ‘sto sistema /il migliore è stato ritenuto, // In vari modi le scuole stanno stritolando / – dalle norme fiscali ai mandati senza fondo – / e se sulla strada dei soldi ci stiamo incamminando / Ci sta profitto certo se la scuola sta fallendo/ Riformare l’istruzione non è filantropia./ Se del meglio per i ragazzi non si tratta /Come diavolo può essere una cosa ben fatta?/ Cercano di contrapporre sindacati e comunità /ma: “Ferma ‘sta pazzia!” lo diciamo in unità.//
Testano i ragazzi per dire: ha colpa l’insegnante / C’entra questo piuttosto che i ragazzi / quello che loro dicono nonostante./ ‘Sto sistema è tanto pieno di difetti /che annega nei problemi /è pensare nelle bolle se tu pensi fuori schemi. / Ma pensare nelle bolle limita la creazione / Stiamo standardizzando i test o una generazione? / E questi dati chi ha il diritto di collezionare? /E perché mai c’è il diritto di selezionare?//
E’ che i politici non conoscono l’educazione / se non antepongono i ragazzi nella legislazione / Quello loro è un apprendimento soffocante / Questa dei test è una cosa ossessionante / I ragazzi meritano di meglio certamente.//
E ora stiam correndo verso ‘comuni obiettivi’ / già avvertiti di aspettarci che i nostri ragazzi / Otterranno alla fine dei punteggi cattivi. / Ragazzi di tutto il mondo, vogliamo ricordarvi / che il test è solo un test, non può classificarvi!…”

Ecco, appunto. Faremmo bene a ricordarcelo anche noi e, perché no, a lanciare anche in Italia “un rap sull’Invalsi… per non selezionare su presupposti falsi.”

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