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Intervista ai Kruk, band romana al suo album d’esordio

I Kruk sono una band romana, lo scorso mese è uscito il loro primo album, End it, dieci tracce che acquistano movimento dal post-rock per ricercare originali percorsi musicali.

Lo scorso 23 dicembre i Kruk hanno suonato a Roma, al Circolo degli artisti, occasione che mi ha permesso di rivolgere loro qualche domanda sulla loro musica, sino ad abbracciare discorsi più generali e riflessioni sparse sul Pop, la musica contemporanea, il “lavoro del musicista”.

Il gruppo conta cinque elementi: Marco Biasioli (voce e songwriter), Andrea Boccadoro (tastiere e piano), Emanuele Esposito (batteria), Valerio Scialanca (basso) e Alessandro Ventura (chitarre).

Da un punto di vista teorico, i Kruk hanno le idee ben chiare su cosa vuole essere la loro musica, come assorbire la lezione della tradizione musicale (dalla musica classica ai Beatles, solo per fare due esempi) ed in che termini tradurre tale ricerca in un linguaggio, musicale, che sia originale e pop.

Proprio in questa parola risiede parte del lavoro di ricerca svolto dal gruppo romano:

 Ci sono tre grandi categorie di musica: "classica" o "eurocolta", jazz e popular music. Nel pop, come macro categoria, entra di tutto, dai Beatles a Tiziano Ferro, poi ovviamente ognuno di questi musicisti, artisti o prodotti che siano, hanno un livello di integrazione della tradizione e di ricerca piuttosto che di commerciabilità, questi elementi si danno con un equilibrio diverso, ma rientrano tutti nella categoria di popular music.

Così Andrea mi spiega la loro idea di pop, categoria neutra da accettare senza connotazioni di giudizio, canone da scrutare e studiare nel dettaglio e mi racconta anche, lui che è tastierista dei Kruk, ma anche studente di composizione di classica, perché i Kruk rappresentano un’alternativa al panorama pop, perché l’etichetta “rock” o “post-rock” gli va stretta:

“Quando mi approccio al rock per me è popular music, non è semplicemente musica alternativa, indie o altro, c’è un’operazione di ricerca e rapporto con la tradizione, quest’integrazione tra tradizione e immediatezza della capacità di sintesi è la chiave del pop, è una ricerca di equilibrio che forse oggi manca, l’arte nel novecento si è sempre posta per rotture, estremizzazioni, avanguardie, probabilmente, in questo senso, noi siamo più neoclassici”.

A novembre scorso è uscito il vostro primo album, End it, registrato tra marzo ed ottobre, missato a Londra da Steve Orchard (che aveva già curato i lavori di Travis, Paul McCartney, Peter Gabriel) per il master vi siete affidati a Kevin Metcalfe (il quale ha lavorato per Prodigy e Oasis). Un lavoro complesso per un disco che reputo complesso. Trovate insolito, come primo album, tale mole di lavoro oppure è un’esercizio necessario per arrivare tutti insieme ad un prodotto definitivo figlio della partecipazione di tutto il gruppo che poi si traduce, credo, in una stratificazione del suono?

(Andrea) Che sia questo un procedimento inusuale o meno non lo so dire: noi da una parte non abbiamo avuto una produzione, abbiamo investito i nostri soldi, avevamo tante canzoni ed arrangiamenti belli, volevamo confrontarci con lo studio come strumento di produzione del suono e della musica, come uno strumento meta-musicale. Artisticamente ci sembrava il caso di mettere un punto, mettere nero su bianco una serie di cose ed è quello che abbiamo cercato di fare con questo disco.

Penso che End it sia l’esito di un insieme di fattori, ad entrambe le domande si può dare risposta affermativa; il lavoro è durato tanto perché in corso d’opera ci sono state difficoltà che si potevano superare solo registrando nuovamente alcune parti e rifacendo i missaggi una seconda volta, per avvicinarci di più al suono che avevamo in mente. E’ vero che c’è una stratificazione del suono, peculiarità del nostro gruppo è anche questa: ci sono diversi background ed influenze che in qualche modo convergono per fondare un suono comune che sia nuovo, da un lato legato a una serie di componenti della tradizione cui ognuno di noi fa riferimento, da un altro però cerchiamo qualcosa di originale, un sound nuovo. In qualche modo questa stratificazione, probabilmente, ha richiamato a sua volta la stratificazione del procedimento di produzione dell’album stesso. Non voglio diventare troppo contorto: è stato necessario un lavoro molto raffinato di missaggio e di mastering per valorizzare queste diverse stratificazioni che erano presenti a livello compositivo nell’album. Il disco era complesso ed aveva bisogno di una serie di passaggi, di rifacimenti mirati a valorizzarne suoni e varietà.

Complessità, rigore e multi varietà nei “modelli di riferimento”. Mi sembrano tre aspetti peculiare del vostro modo di comporre e di lavorare, siete d’accoro?

(Marco) Cerchiamo sempre di non strafare, anche se abbiamo varie influenze musicali cerchiamo di armonizzare il tutto, di fare un prodotto equilibrato.

(Andrea) Molto equilibrato, a livello discografico è sicuramente così, penso però che queste stratificazione a volte risultano difficili da rendere live e quello che vedo che sta avvenendo adesso, con le nuove canzoni, è un processo di sintesi positivo, stiamo raggiungendo un sound più compatto che abbisogna meno di così tante stratificazioni; c’è un approccio diverso già stiamo cambiando e ci stiamo evolvendo in qualcosa di ancora diverso: vogliamo raggiungere un suono ancora più sintetico e diretto ed è quello su cui stiamo lavorando.

(Alessando) Sì, il rigore è dato in un certo senso proprio dalla varietà di fondo, per cui ciascuno ha un’idea diversa di cosa sia un suono bello, una canzone bella; non si vuole trovare un compromesso, cerchiamo una sintesi che dia voce a tutte queste posizioni, diverse e complementari. il nostro obbiettivo è quello di creare un prodotto che sia pop, che parli alla gente da vicino ed in modo immediato, ma che sia anche colto ed elaborato. Penso che tutti igrandi gruppi della storia abbiano creato questa magia apparentemente contraddittoria, Pink Floyd, Led Zeppelin ed altri, avevano cultura e formazione alle spalle, erano in classifica, ma non scendevano a compromessi. La musica popolare di oggi è in un certo senso quella della metropoli, una musica globalizzata, Pop nel significato inglese…

A proposito dell’inglese: avete deciso di cantare esclusivamente in lingua inglese, scelta ardida considerando la scena romana, è stata una scelta comune? Dettata da quali esigenze?

(Marco) Dal momento che i testi li scrivo io, l’educazione musicale che ho avuto è stata in inglese e mi riesce naturale scrivere in inglese piuttosto che l’italiano; se traduci Serenade in italiano viene un po’ una cagata, non perché il testo sia brutto, ma semplicemente non funziona! La cultura rock musicale inglese ha 70-80 anni di tradizione, le fondamenta del rock contemporaneo le hanno gettate i beatles negli anni 60, gli italiani sin dagli anni 60 hanno copiato fondamentalmente. Io penso che se la cultura rockitaliana ha una ventina o trentina d’anni e quella inglese più del doppio bisogna scegliere bene i propri modelli di riferimento!

(Alessandro) In Italia comunque c’è una tradizione di cantautorato, a me anche un po’ estranea, ricca e variegata. Uno che a me piace è Battisti, bisogna riconoscere questa tradizione che in alcune sue vette raggiunge i capolavori degli anni ’70. Nel nostro paese ci sono anche fior fior di jazzisti italiani, rinomati nel mondo, c’è un certo talento italiano, forse quello che manca è un collante ed un reinventarsi, quel cantautorato è finito, i postumi che ne rimangono sono, appunto, dei postumi.

(Andrea) Nel passato la lingua e la musica italiana ebbero una grande influenza sulla cultura musicale europea, ad esempio con la nascita dell'opera; ogni epoca ha la propria egemonia, oggi è l’inglese, ma scrivere in inglese non è un’operazione di sottomissione, è farsi carico della tradizione,voler imparare dalle culture che hanno dato di più. Fare musica in inglese in Italia può ostacolarci, non è vincente, ma non è una scelta commerciale, piuttosto di punti di riferimento. In conclusione noi abbiamo un’attitudine molto strumentale, mi sembra che nella musica fatta in inglese ci sia una ricerca nel suono sulla parola e sul linguaggio di tipo pioneristico rispetto a quello che è stato fatto in Italia.

Le anime dei Kruk mi sembrano molteplici, avete esperienze e formazione diversa, dalla musica classica al rock degli anni ’60 a gruppi più recenti e sperimentali, come i Radiohead. Sicuramente l’amicizia che vi lega è un collante formidabile, ma da un punto di vista più tecnico, come lavorano i Kruk?

(Alessandro) L’idea primaria da cui si sviluppa il pezzo spesso è di Marco, altre volte è di Andrea, qualche volta persino mia, quello che caratterizza una prima fase dei Kruk, che si trova in End it, è una stratificazione, un’architettura: c’è un’idea principale, ma poi c’è un gioco prospettico tra diversi elementi. Quello che stiamo cercando di fare ora è comporre brani che siano già autosufficienti al di là dell’arrangiamento, ci concentriamo sulla struttura armonica e melodica del pezzo, questo vuol dire ad esempio che quando io mi ritrovo a dover mettere delle chitarre su un determinato pezzo che è già strutturato, in qualche modo metto meno cose, questo vuol dire spostare l’attenzione su altri elementi, accordi, melodia…

(Valerio)Quando sono entrato nel gruppo, all’inizio mi sono trovato in difficoltà, alcuni pezzi erano già scritti ed io dovevo suonare per il brano, non dovevo dimostrare le mie doti, ma metterle a disposizione per la riuscita del pezzo, era una cosa per me concettualmente nuova, ma fondamentale per il lavoro che facciamo.

(Andrea) Quando scriviamo una canzone dobbiamo in qualche modo limitarci negli arrangiamenti, ci stiamo rendendo conto che il live ci costringe a ricercare un livello di sintesi, è una sfida, ma è bello concentrare in tre minuti la nostra musica.

E’ possibile seguire i Kruk qui e qui per conoscere le loro date future e/o acquistare l'album (7 euro il download, 10 il disco) per ora faranno una serata il 28 gennaio al Brancaleone, occasione in cui presenteranno il primo video tratto da End it, Homeless Cowboy, girato la scorsa settimana per la regia di Peppe Toia.

Ecco tre canzoni tratte dall'album End it:

Serenade

Desert hill

Watery paths

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