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In gita a Grado - A lezione dai gabbiani

A cavallo della domenica delle Palme, approfittando del volo diretto Brindisi a Venezia (finalmente senza la "forca caudina" del transito per Roma Fiumicino), mi sono ritagliato un week-end in Veneto e nel Friuli.
 
Ciò, sia con la finalità di adempiere ad una "visita" d’obbligo - per cui, da tempo, mi sentivo interiormente pressato -, sia per rivedere terre ben note e particolarmente care, sia, infine, per salutare alcuni vecchi amici.
 
Innanzitutto, quindi, ho vissuto, e mi ha coinvolto, un rapido appuntamento con il "Santo" a Padova, nella Sua Basilica, in un’atmosfera di religiosità e devozione sempre tanto straordinaria e suggestiva.
 
Il giro è poi proseguito in direzione Nord - Est, fino ad Udine, il bellissimo capoluogo friulano che, a mio avviso, letteralmente incanta chi arriva, già con quella stupenda corona delle Alpi Carniche e Giulie che sormontano il suo orizzonte a tutto campo.
Devo però dire che, nella circostanza, la fase del viaggio per me più accattivante ha coinciso con il raggiungimento del litorale adriatico - che da queste parti si caratterizza con candidi e spaziosi arenili e con una placida, apparentemente sonnacchiosa, distesa delle acque sotto forma di laguna - e con la sosta nella splendida cittadina di Grado, che si presenta come adagiata, con elegante garbatezza, sulle onde quiete e leggere, a guisa di una conchiglia dischiusa sotto la luminosità solare. Non a caso, la località, assai rinomata dal lato turistico, si fregia anche dell’appellativo di "Isola del Sole".
 
Negli anni, ho avuto svariate occasioni di trovarmi nella zona, per lavoro o in gita. E devo dire che, ogni volta, mi è capitato di avvertire una sensazione eguale, costante: pur nella assolutamente diversa conformazione della costa, pur di fronte a colori differenti, malgrado la distanza di oltre mille chilometri dalla mia Marittima, sono stato sistematicamente pervaso da un sentimento di affinità elettiva, da una sorta di confidenza, verso questo tratto dell’Adriatico, quasi come a casa mia. Ed è tutto dire.
 
Ora, a freddo, una spiegazione riesco a darmela: essendo nato ed avendo vissuto, negli anni più significativi e pregnanti, lungo l’estremo sud del medesimo mare, credo che, dentro di me, sia venuto a suo tempo a formarsi una sorta di inesauribile processo di somatizzazione, che, in quanto tale, resiste vivo e riaffiora in ogni contatto o approccio con le coste dell’Adriatico, non importa se vicine o lontane rispetto ai luoghi delle mie origini. E, per me, ciò costituisce un’ impagabile "dote" donatami dalla natura.
 
Non solo Mare Adriatico, ma, poggiata sulle sue onde, dicevo, anche Grado.
Percorrendo la strada statale che da Udine - attraverso Palmanova, Cervignano e Aquileia - invola il viaggiatore fino alla sua laguna, già subito dopo l’antica residenza dei Patriarchi, allorquando rimangono ancora da percorrere una decina di chilometri, si scorge il primo simbolo della cittadina, cioè il campanile del suo Duomo, che, peraltro, richiama molto, anzi sembra per approssimazione una vera e propria copia, quello di Aquileia.
 
Come anzi detto, più volte mi è stato dato modo di visitare Grado, da solo o con la famiglia. Da sempre, mi sento particolarmente attaccato al suo Duomo, dedicato a S. Eufemia, opera di stile romanico, certamente non eccelsa, ma, nondimeno, interessante e piacevole, che ti prende subito per la compostezza armonica della sua struttura d’insieme e per quella particolare e intensa aria di raccoglimento e di meditazione che aleggia e si respira all’interno.
 
Pensate, pur facendo capo ed essendo soggetto in via giurisdizionale alla Diocesi di Gorizia, il duomo di Grado, per la sua antica storia ed i riconosciuti fasti, gode di particolari prerogative, e così è anche per il suo parroco. Questi ha infatti il rango di Monsignore, indossa i paramenti e la berretta violacei, porta al dito un prezioso anello che, sebbene non costituisca simbolo di dignità vescovile, è ad ogni modo un segno distintivo e altamente significativo.
 
Nell’occasione, ho partecipato, in questa chiesa, ai riti della Domenica delle Palme.
Prima all’esterno, con la presenza di una folta schiera di persone - composta non solo da turisti ma anche da gente locale - recante in mano i tradizionali ramoscelli d’ulivo oppure foglie "preziose" di palma. Nell’assistere alla consueta benedizione, non ho potuto fare a meno di riandare con il pensiero agli anni dell’infanzia, lontani ma tuttora vivi, quando, con l’esuberanza propria dell’età, vivevo analoghi, intensi momenti celebrativi sul sagrato della parrocchiale di Marittima.
 
Dopo la benedizione, ecco formarsi un ordinato corteo, che - preceduto da un antico crocifisso, dal Monsignore e da un coro (composto interamente da uomini anziani) che intona vecchi inni e note che richiamano la Festività, appunto delle Palme - incede lento e solenne verso il centro e l’altare del Duomo.
 
Quindi, il rito della Messa in latino, con il celebrante che - secondo il vecchio cerimoniale - rivolge le spalle ai fedeli, con lodevole e tangibile partecipazione da parte di tutti, anche nel corso della lettura - sempre nella versione in latino - del lungo racconto della Passione, lettura inframmezzata, da una fase all’altra del cammino del Nazareno verso il sacrificio, da canti tradizionali molto belli eseguiti dal coro "anziano" prima citato.
 
A proposito di canti, mi piace rievocare che, durante qualche mia pregressa presenza nel Duomo di Grado, mi è successo di vivere, con gioiosa meraviglia, anche una singolare coincidenza di testi, contenuti ed intonazioni che, in un attimo, mi hanno ricondotto dalle mie parti.

Non so se vi sia capitato di trovarvi, in talune ricorrenze, nella ex cattedrale di Castro e di ascoltare il canto "Madonnina del mare", ispirato chiaramente alla vita dei pescatori, per i quali viene invocata la benedizione e la protezione della Vergine. Ebbene, pure a Grado ho goduto dell’esecuzione di tale canto: mentre, a Castro, ciò è indubbiamente collegato alla venerazione della Madonna di Pompei, la cui statua durante l’estate viene - come si sa - portata in processione a mare, per i gradesani la circostanza ha per riferimento la devozione alla Madonna dell’isoletta di Barbiana, che affiora limitrofa nella laguna con un aggraziato santuario.
E’ vero, questo genere di note e di armonie può sembrare di piccola portata e di modesto significato; in realtà, soprattutto nelle corde più profonde, esercita invece un effetto non da poco.

Ma Grado non è bella unicamente per via del suo Duomo: un po’ tutto il suo complesso dà la sensazione di un habitat gradevole, proprio da godere.
Gli ampi arenili, utilizzati anche per finalità terapeutiche attraverso le benefiche "sabbiature", il verde inebriante del quartiere denominato "Città giardino", gli angoli e le numerose linde casette e bottegucce delle stradine del centro storico, lo stesso accento - in dolce cantilena ma non stucchevole - delle voci degli abitanti.
Si ha la percezione di stare bene. Io, almeno, anche se qui mancano i nostri magici fondali dalle struggenti sfumature e trasparenze, mi sento inequivocabilmente bene.
Ora, però, è giunto il momento di passare alla seconda parte del titolo di queste note, "A lezione dai gabbiani".
 

Nel pomeriggio, sto oziando beatamente ad assaporare il bel sole primaverile di Grado, sdraiato su una comoda panchina proprio a ridosso della spianata di sabbia che segna l’inizio della serie di stabilimenti balneari ubicati nella "Città giardino". Di fronte, a destra, conficcati nel basso e molle fondale, tre o quattro solidi pali, disposti - non ricordo bene -a triangolo o a quadrato, a cui si usa di solito ormeggiare piccole imbarcazioni di passaggio o per brevi soste. Di fronte, a sinistra, un pontile che si diparte proprio dalla zona di passeggio sul lungomare, estendendosi per una settantina di metri verso il largo.
 
All’ improvviso, mi si para innanzi allo sguardo una coppia di gabbiani, che, mi rendo subito conto, deve essere costituita da madre e figlioletto in tenera età. Vedo, in particolare, il piccolo intento a sguazzare, un po’ impacciato ma allegro, a pelo d’acqua, con strida ravvicinate, mentre la madre va volteggiando più su, a tre/quattro metri d’altezza, e lo incita insistentemente a nuotare, a muoversi sull’acqua, a librarsi in volo: così, quantomeno, mi pare di capire.
 
Sembra, la madre, compiere una autentica, lunga maratona di dedizione, tutta intrisa di amorevolezza, che solo quel "ruolo" può sostenere, convincente e faticosa insieme. Non si stanca mai di insegnare, dà la sensazione di voler mettere l’ intero bagaglio di esperienze posseduto a disposizione della sua creatura, esortandola a sforzarsi per divenire a sua volta adulta e così affrontare autonomamente e con sicurezza il domani.
 
Ricordate quell’ altra famosa "gabbianella" del racconto di Sépulveda, con il gatto che le fa da balia e da istruttore?

Il giovanissimo gabbiano dimostra sì di voler ascoltare gli insegnamenti della genitrice, ma stenta a metterli in atto, forse a causa della naturale paura che tutti i piccoli hanno. E continua, perciò, con la sequenza di strida che sono un insieme di gioia, di timore e di esitazione.

La "madre", ad un certo punto, è completamente esausta e, di conseguenza, deve appoggiarsi per alcuni minuti su uno di quei pali conficcati sul fondo sabbioso. Ha bisogno di tirare un respiro, di ritemprarsi.

Intanto, il piccolo sta pian piano arrivando, muovendosi sempre a pelo d’acqua, all’altezza della parte terminale del pontile, sotto il costante occhio vigile della madre. Ed è lì che questa ultima gli si ricongiunge, continuando a prodigarsi nei suoi suggerimenti.
 
Che magnifico esempio, stupenda "mamma" di gabbiano! Chi, fra noi persone, al giorno d’oggi, si prodiga in tal modo, cioè con infinita pazienza ed amore assoluto?
Ecco, a mio giudizio, un’ autentica lezione per l’umanità del terzo millennio, la quale si autodefinisce così ricca e dotata di tutto, mentre in realtà è povera e debole. Non ci vuole del resto molto a cogliere i segni di questa "precarietà", di questo "vuoto" di sensibilità e di amorevolezza.

Sentite un po’, difatti, che cosa accade nella specifica circostanza. All’estremità del pontile, staziona un gruppo di adulti, non ragazzini, bensì adulti. Hanno a lungo osservato, anche loro, la scena dei gabbiani. Eppure, ad un certo punto, nel momento in cui le evoluzioni dei due meravigliosi volatili del mare si svolgono proprio a due passi da loro, questi signori non trovano da fare di meglio che di lanciare addosso ai gabbiani delle assicelle di legno, costringendoli, ovviamente, a scappare via nello scompiglio.
 
Un gesto tanto crudele quanto inutile, che se da un lato mi rattrista, mi fa pensare e un po’ vergognare, dall’altro, però, non cancella la bella giornata trascorsa a Grado e, in particolare, l’ammirevole esempio offertomi dai gabbiani.

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