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Imprenditoria migrante: la storia di Elena tra impegno e umiltà

Ogni storia di immigrazione è una storia a sé. Hanno radici, origini e narrazioni diverse ma sono tutte accomunate nel desiderio di costruire un futuro diverso, migliore, per sé e le proprie famiglie. Fili che si dipanano e si intrecciano in modo inaspettato, casualità o destino che sia. Anche la storia di Elena Snoz è così, con occasioni prese al volo e piccoli-grandi gesti di coraggio che hanno impresso diverse svolte alla sua vita.

L’abbiamo incontrata nei pressi della sua “Sartoria Ricamificio Elena” a San Prisco, un piccolo centro vicino Caserta, nel giorno di apparente chiusura. “Apparente” perché nel corso delle ore passate insieme saranno molti i clienti, gli amici, i conoscenti che la contatteranno, le faranno visita, a cui lei dispenserà consigli e aiuto. Lei, a tutti nessuno escluso, dispenserà sempre un sorriso e un aiuto, con il tono mite e gentile che la contraddistingue. Elena è una donna molto sicura di sé, consapevole dei suoi progetti, con una grande dignità che l’ha accompagnata nel suo percorso da quando dieci anni fa è partita dall’Ucraina, dove era una professoressa, per l’Italia. 

Una strada in salita ma che oggi la vede a capo di un’attività imprenditoriale ben avviata e conosciuta, rispettata e ammirata da tutti.

“Insegnavo cucito alle scuole superiori, ma avevo poche ore assegnate. C’era molta crisi e anche in famiglia il clima non era sereno. Mi stavo separando da mio marito, dovevo staccare, allontanarmi per ricominciare”, ci racconta davanti a un caffè. 

Grazie a una sua conoscente in Italia viene a conoscenza del decreto flussi, Elena fa subito richiesta ma la risposta tarda ad arrivare. Decide quindi di darsi da fare. Il lavoro a scuola non è abbastanza e si mette in proprio, nonostante la crisi, con coraggio investe i suoi risparmi e apre una merceria. Occorrono due anni affinché la merceria pian piano cresca “Dopo due anni andava molto bene, l’unica cosa che non migliorava era l’aspetto familiare”. Ed è a questo punto che arriva la risposta alla domanda che aveva quasi dimenticato: arriva il nulla osta per il decreto flussi. Una attività avviata, una crisi familiare. Cosa fare quindi? “Sono stata molto coraggiosa a partire ma non potevo fare altrimenti. Quello che è ora il mio ex marito aveva appena perso il lavoro: ho deciso quasi al volo di intestargli la merceria e partire”.

Ed è così che dieci anni fa Elena arriva in Italia.

“Appena arrivata ho cominciato a lavorare presso una famiglia come badante dalle 5 del mattino alle 11 di sera. Non ero la badante solo della signora, mi sono ritrovata a servire tutta la sua famiglia”. Elena però non si perde d’animo seppur catapultata in un nuovo paese di cui non conosce la lingua, con pochi legami, in una posizione lavorativa decisamente diversa a quella a cui era abituata. “Nel mio paese il mestiere di insegnante è molto rispettato, secondo me perché il capitalismo è arrivato da poco. In Ucraina mi si rivolgevano sempre con il lei, qui invece ero trattata molto male. Quindi ho sentito la necessità di imparare ad esprimermi bene per essere rispettata. Fortunatamente con una conoscenza discreta dell’inglese e un bel po’ d’impegno ci sono riuscita”. Elena oggi parla in un perfetto italiano senza alcuna inflessione dialettale, quasi senza accento. 

Mentre ci spostiamo verso la sartoria riflettiamo sul trattamento degli stranieri in Italia, soprattutto l’approccio degli italiani verso i migranti impegnati in lavori considerati “umili” sebbene spesso essenziali, come quello di badante e collaboratore domestico. Da lì, il discorso si amplia al razzismo e all’egoismo di alcuni: “Quando torno in Ucraina mi stupisco di quanto siamo diventati razzisti, egoisti. Tante persone di mezza età che dalla fine del socialismo hanno fatto carriera, alcuni anche accumulando grandi fortune grazie alla corruzione sono molto chiuse mentalmente. Certo è lo stesso anche qui in Italia. Ci sono persone con lo sguardo e la mentalità aperta ma anche quelli che vogliono solo sfruttarti e che magari non ti considerano neanche un essere umano”.

Elena capisce a un certo punto che non può più reggere quel lavoro da badante, che ha voglia di cambiare “Così ho fatto la valigia, ho pianto, e me ne sono andata.” Dopo un breve ritorno in patria, decide che non avrebbe più lavorato in famiglia ma purtroppo la necessità di un impiego, per mantenersi e per rinnovare il permesso di soggiorno, è pressante. Trova una nuova famiglia con cui si trova meglio e che la sfrutta di meno, aiutandola anche con alcuni problemi di salute che nel frattempo sono sorti. “Mi sono affezionata tantissimo a loro e loro a me. Mi trattavano benissimo e avevo un contratto regolare ma i miei problemi di salute non miglioravano e alla fine ho cominciato ad avere anche difficoltà a lavorare. Sono finita anche ricoverata in ospedale, e non ci crederai ho sentito in quell’occasione per la prima volta parlare in dialetto… mi è piaciuto tantissimo!”.

I problemi di salute e il ricovero, uniti agli orari estenuanti a cui era sottoposta hanno però fatto capire a Elena che quei ritmi di lavoro erano diventati insostenibili. “Non potevo più andare avanti così. Ho capito finalmente che non tutti lavoravano ai ritmi a cui ero abituata io”. Ancora una volta, con un incontro fortuito decide di cambiare il corso alla sua vita. Tramite l’incontro con una conoscente scopre di poter andare a lavorare sulla costa romagnola: a Rimini c’è necessità di personale che sappia parlare russo. E cosi, ancora una volta con coraggio dà una svolta alla sua vita e parte.

Nel frattempo però Elena ha incontrato una persona, un uomo gentile rimasto vedovo qualche anno prima. “Lui mi era molto simpatico e la cosa che più mi ha colpito è che, a differenza di molti uomini italiani, non aveva i soliti pregiudizi sulle ‘donne facili’ dell’est Europa.” Lentamente scatta una simpatia che pian piano si trasforma in affetto “Non avevo nessuna intenzione di rifarmi una vita a livello sentimentale e familiare ed invece è successo.”.

Purtroppo però la necessità di trovare un lavoro più dignitoso è pressante: “Nel 2011 ho deciso di andare a Rimini perché avevo fatto enormi sacrifici lasciando mio figlio 15enne in Ucraina, e volevo che ne valesse la pena. Quando sono partita per Rimini lui [il compagno] ci è rimasto un po’ male ma mi ha molto appoggiata”. A Rimini dopo qualche tempo comincia a lavorare come cameriera in un ristorante, “Il rapporto con i colleghi non era ottimo e il lavoro era molto duro, facevo tutte le mansioni che mi assegnavano. All’inizio poi non avevo nemmeno i soldi per fare una ricarica telefonica, perché dovevo pagare l’affitto e la caparra, l’abbonamento dei mezzi per andare a lavoro… a volte mi è capitato anche di andare a mangiare alla Caritas. Però in questo periodo ho capito che in Italia se sei in difficoltà c’è sempre qualcuno che ti aiuta, cosa che in Ucraina non succede.”.

Le difficoltà affrontate, e superate, non intaccano minimamente l’umiltà di Elena: “Quello che ho passato non mi dà orgoglio perché tutte le persone che arrivano in Italia lasciano sempre qualcosa nel loro paese e affrontano grandi difficoltà, la mia non è una situazione unica”.

Elena trascorre a Rimini tre stagioni di lavoro, durante le quali colui che è ormai diventato il suo nuovo compagno le fa visita ogni volta possibile. Ma ancora una volta, un cambiamento l’aspetta dietro l’angolo.

Torna definitivamente in provincia di Caserta in cerca di un nuovo lavoro e inizia una nuova vita convivendo con il compagno, ma non resta certo con le mani in mano ed è sempre in cerca di un nuovo lavoro per mantenere la propria indipendenza ed il figlio adolescente rimasto in Ucraina. 

“Ho portato un paio di pantaloni ad aggiustare e me li hanno rovinati, ne ho portato un altro paio e me li hanno rovinati di nuovo così ho deciso di farlo da sola e ho comprato una macchina da cucire non molto professionale per i livelli cui ero abituata nel corso che tenevo in Ucraina.”. Il suggerimento di tornare a lavorare nel campo della sartoria arriva in quel momento dalle cognate, che le suggeriscono di cominciare come sarta in una bottega di Caserta che cercava personale. Ma gli inizi in questa nuova avventura non sono facili, ancora una volta sottopagata, Elena è costretta a tornare al vecchio lavoro di badante. “In quel periodo facevo tre lavori: in sartoria, come badante di un disabile grave e poi la notte per assistere una persona anziana.”.

L’impossibilità di avere un contratto regolare la spinge di nuovo a cambiare lavoro: “Mia cognata mi ha proposto di andare a lavorare nella camiceria dove lavorava lei. Sapevo di non volerlo fare perché è un lavoro molto noioso.” La necessità si fa sentire, però, e quindi accetta “Quando ho iniziato a lavorare, tutti sono rimasti impressionati dalle mie abilità nel trattare le stoffe. Dopo mi hanno chiesto di aggiustare i capi cucinati male, nessuno sapeva farlo, io sì grazie alla mia esperienza e sono arrivata ad aggiustare 40 capi in mezza giornata. Dopo due settimane ho capito che non ce la facevo, la fabbrica non faceva per me”. 

E quindi Elena comincia a riflettere su un nuovo progetto: “Ho maturato l’idea di mettermi in proprio quando nel 2014 mi hanno parlato di fondi per l’imprenditoria femminile. Non avevo mai pensato nella mia vita di aprire una sartoria in Italia perché per me la moda qui era solo Armani, Gucci, i grandi marchi. Il livello era troppo alto per me. Quando vedevo qualche abito di queste case pensavo a come lo avrei fatto io, ma nulla più.” Elena apprende la notizia dell’accettazione della domanda dei fondi mentre è in Ucraina in vacanza “È stata davvero una bellissima emozione. Ho lasciato subito il lavoro che facevo allora di sarta a percentuale su ogni capo. Mi sono catapultata in questa nuova esperienza anche se con molti dubbi, dovevo compilare moltissimi documenti, prendere in affitto un locale. Molti impegni nuovi e sconosciuti”.

La paura e l’ignoto non hanno fermato Elena che dopo tre anni ha ormai un’attività che funziona a pieno regime. Un laboratorio pieno di stoffe e macchine da cucire, un’agenda fitta di impegni e appuntamenti. Qui ha ritrovato i clienti che aveva nelle altre sartorie dove ha lavorato in passato e ne ha conquistati tanti di nuovi. “La mattina sono obbligata a mettere il cartello di chiusura altrimenti non riesco a lavorare.”.

“Quello che consiglierei a chi arriva da un altro paese è racchiuso in un detto delle mie parti: se vuoi dirti fungo, mettiti nel cesto dei funghi. Ovvero essere umili e darsi da fare. Puoi essere un professore nel tuo specifico campo ma ti tocca ripartire da zero quando ricominci. Qualsiasi cosa fai, se ci metti il cuore, è sempre importante. Tutto al mondo è collegato. Non esiste una cosa che non serva: tutto serve a tutto”.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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