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Il vuoto culturale come linea guida dei partiti

Molti si chiederanno il perché di un titolo con questo taglio. Una considerazione talmente aderente con quello che vediamo tutti i giorni che rischia di scadere nella banalità. La funzione del giornalismo però è proprio quella di fungere da perfetto specchio della realtà, senza filtri; correndo anche il rischio di diventare banali, ma tenendo sempre ben ferma la consapevolezza che la colpa, nella maggior parte dei casi, non è dello specchio ma della realtà che gli sta davanti. 

L’unico modo per evitare il rischio di diventare scontati è di attivare lo spirito critico di cui il giornalismo deve essere sempre portatore. Contribuire al dibattito pubblico con analisi originali e, possibilmente, lontane dalle logiche del conformismo e del politicamente corretto. Cosa che i partiti politici hanno smesso di fare da tempo e che induce a considerazioni, come quelle di cui sopra, che possono essere tacciate di banalità, senza esserlo.

La verità è che quelli contro cui si accanisce la rabbia, legittima e giustificata, dei cittadini non sono più partiti, ma contenitori senza anima. Sono caste in cui le brame dei politici emergenti hanno la possibilità di concretizzarsi istituzionalmente, per pura vanagloria e ambizione personale. Le adesioni ai partiti non sono più il frutto di un’adesione più grande ad un sistema ideologico che aveva una propria concezione del mondo, della vita, dello stato e dell’economia. Oggi non funziona più così, quelli di oggi sono partiti che non avendo un perimetro ideologico ben definito, si prestano bene ad accozzaglie inconcludenti. Per non parlare dell’aspetto legato ai continui cambi di schieramento, che sono possibili perché un partito privo di qualsiasi cultura politica può contenere al suo interno tutto e il contrario di tutto. Il dramma è che questo teatrino si ripete anche nei gruppi parlamentari, che sono la proiezione dei partiti nelle sedi istituzionali, con il solo risultato di svilire quelle che sono le istituzioni democratiche.

Nella tanto vituperata Prima Repubblica, appartenere a un partito significava essere democristiani o comunisti, socialisti o liberali, repubblicani o missini; oggi non significa più niente. Si trattava di partiti che già nel nome si richiamavano a un sistema ideologico, con dei valori e principi e un programma che ne era emanazione diretta. Organizzazioni che erano delle vere e proprie scuole politiche, e da cui emergevano leader capaci di indirizzare il futuro secondo una chiara visione delle cose. I politici di oggi hanno perso questa capacità, si sono ridotti a essere semplici amministratori e, in quanto tali, si limitano a una mera amministrazione dell’esistente, senza alcuna visione del futuro. E’ un po’ come la differenza che passa tra il politico e lo statista di degasperiana memoria: il primo guarda alle prossime elezioni, il secondo alle prossime generazioni. In virtù di questa stortura si è consumato il passaggio dalla politica come scienza e pensiero alla politica come mestiere.

Lungi dal fare una difesa di quella che è stata la stagione della Prima Repubblica, lo scontro tra Renzi e De Mita di qualche giorno fa è la rappresentazione plastica di questa degenerazione. Due mondi contrapposti e due diverse idee rispetto a quella che deve essere la funzione della politica e al modo in cui essa va esercitata. Una contrapposizione che segna l’apice del fallimento di un giovanilismo che ha cercato di farsi largo a colpi di rottamazione, e ci è riuscito cristallizzandosi nel vuoto più assoluto. L'aspetto più drammatico di tutto cio è che questa dilettantocrazia giovanilistica pare abbia nella sua nullità il rimedio più efficace per non essere a sua volta rottamata.

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