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Il mito razzista del “genocidio dei bianchi” in Sudafrica

Torna sulle nostre colonne Andrea Virga, che oggi sulle nostre colonne confuta il mito secondo cui, dopo la fine dell’Apartheid, il Sudafrica avrebbe conosciuto un vero e proprio “genocidio” della minoranza bianca.

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La fine del regime d’apartheid in Sudafrica è stata conseguenza di un lungo scontro politico interno al Paese, a sua volta strettamente connesso alla decolonizzazione violenta dei Paesi dell’Africa meridionale: Angola, Mozambico, Zambia e Zimbabwe (Rhodesia). La fine della Guerra Fredda e il collasso del blocco sovietico portarono ad una generale stabilizzazione dell’area, dopo circa un quarto di secolo di conflitti anticoloniali.

Negli ultimi trent’anni, la stampa di destra ha insistito sulle conseguenze catastrofiche di questo evento, sia dal punto di vista economico che sociale. Questa narrativa, che riprende quella dei Conservatori sudafricani, contrari alle riforme varate dal Presidente de Klerk, unisce, alla solita retorica anticomunista, una forte componente razzista, secondo la quale le popolazioni africane indigene sarebbero intrinsecamente incapaci di governare efficientemente e avrebbero quindi peggiorato le loro condizioni di vita rispetto al periodo dell’apartheid. Queste tesi, oltre ad essere moralmente disgustose, sono anche – come vedremo – smentite dai fatti. Questo non significa, naturalmente, che il Sudafrica non abbia effettivamente dei gravi problemi sociali ed economici. Tuttavia, il quadro reale resta ben diverso dalle esagerazioni della propaganda colonialista e neofascista.

Prima di tutto, occorre chiarire come il rivoluzionario socialista Nelson Mandela non abbia dato luogo a nessuna rivoluzione. Tra il 1992 e il 1996 ha avuto luogo essenzialmente un compromesso tra le vecchie élite bianche, rappresentate dal National Party, e le nuove élite nere, rappresentate dall’African National Congress: mentre le prime hanno essenzialmente conservato il proprio potere economico, le seconde hanno monopolizzato, sulla base del proprio netto vantaggio demografico, il potere politico, con le relative prebende. Da quando è al governo, l’ANC ha adottato politiche economiche neoliberali e ha marginalizzato gli esponenti più radicali, come Winnie Mandela e Julius Malema. Anche la Commissione per la Verità e la Riconciliazione è stata fortemente criticata per le sue misure giudicate eccessivamente blande.

Dal punto di vista economico occorre tenere presente che il Paese era stato duramente colpito dalle sanzioni (inflazione a doppia cifra per tutti gli anni ’80), e aveva accumulato un forte debito pubblico (48%). Negli anni successivi, la situazione macroeconomica è da principio migliorata notevolmente: l’inflazione è stata ridotta a un minimo dell’1,4% (2004) e il debito pubblico al 26% (2008). Con la Grande Recessione e la Presidenza Zuma, la situazione è di nuovo peggiorata. Tuttavia, il Paese non ha mai smesso di crescere. Rispetto al 1990, a parità di potere d’acquisto il PIL complessivo è più che triplicato, e quello pro capite è più che raddoppiato[1]. Sono aumentate anche le riserve di valuta estera, grazie all’esportazione di materie prime, ed è cresciuto anche il settore manifatturiero, specie nel settore automobilistico, anche se resta minoritario[2].

Nel frattempo, è cresciuta anche la popolazione (da 36 a 57 milioni in trent’anni), per cui il tasso di disoccupazione è comunque aumentato. Le diseguaglianze sociali restano impressionanti, anche perché, come è stato detto, i rapporti di proprietà preesistenti non sono stati pressoché intaccati. Dunque, a fronte dell’affermazione di una consistente borghesia nera (i “Black Diamonds”), oltre metà della popolazione rimane sotto la soglia di povertà, come nel 1990[3]. Di conseguenza, gli indici di criminalità restano estremamente alti. Tuttavia, è dagli anni ’60 che il tasso di omicidi è superiore ai 30 su 100.000. Era aumentato vertiginosamente dal 1978, fino a toccare l’apice nel 1993 (oltre 66 su 100.000), dimezzandosi poi nel corso degli anni ’90[4]. Inoltre, i crimini commessi tra neri all’interno dei Bantustan erano normalmente esclusi dalle statistiche, il che aumenterebbe ulteriormente il tasso di omicidi durante il periodo dell’apartheid.

Il contesto è indubbiamente problematico, anche rispetto ad altri Paesi in via di sviluppo, tuttavia la minoranza bianca resta a tutti gli effetti privilegiata. Rispetto al 1994, nonostante i proclami sulla riforma agraria, la percentuale di terre private possedute dai bianchi è scesa appena dall’85% al 72%[5]. In termini economici, il reddito famigliare medio è tuttora molte volte quello di una famiglia nera (oltre sei volte nel censimento 2011)[6]. Anche le percentuali di poveri e di disoccupati tra i bianchi sono nettamente inferiori rispetto alla media. Inoltre, nonostante la politica sia ora dominata dalla maggioranza nera, l’ANC ha sempre avuto militanti ed esponenti bianchi, che trovano rappresentanza tra le fila della maggioranza e del governo.

Questi dati smentiscono la retorica vittimistica sposata da molti Afrikaner, i quali pretendono addirittura di essere considerati i veri indigeni, rispetto alle popolazioni nere. In realtà, all’arrivo dei primo coloni, nel XVII secolo, nella regione del Capo, erano già presenti popolazioni ottentotte, mentre popolazioni bantu erano già stanziate nelle regioni più a est, dove invece i boeri si stabilirono solo due secoli dopo, con il Grande Trek. Non è un caso che la gran parte dell’emigrazione bianca (800.000 persone) sia avvenuta tra il 1995 e il 1996, subito dopo il cambio di regime, sulla base di pregiudizi più che di reali mutamenti socioeconomici. Attualmente, invece, la tendenza sembra essersi invertita e stanno ritornando, nell’ordine delle centinaia di migliaia[7].

Veniamo infine all’argomento principe della tesi del White Genocide: i c.d. farm attacks, cioè gli attacchi alle fattorie abitate da boeri. Il tasso di criminalità violenta in Sud Africa è spaventosamente elevato (circa 20.000 omicidi l’anno), ma i bianchi ne sono colpiti in percentuale molto inferiore alla media[8]. La stragrande maggioranza dei crimini avviene, infatti, tra neri poveri. Gli attacchi alle fattorie, inoltre, oltre ad essere in diminuzione rispetto agli anni precedenti, costituiscono una minima parte di questi crimini. Infatti, persino secondo l’organizzazione afrikaner Afriforum, nel 2018 ci sarebbero stati 433 attacchi e 54 morti. Inoltre, questi attacchi sarebbero quasi sempre a scopo di rapina, tant’è che ne restano vittima anche i braccianti neri[9].

Pertanto – anche se non c’è dubbio che permangano forti tensioni razziali, come lascito avvelenato dell’apartheid, ed è comprensibile, seppur non condivisibile, che molti Afrikaner si risentano del fatto di non poter più spadroneggiare impunemente– la realtà dei fatti, nutrita da freddi dati statistici e non da aneddoti sensazionalistici, mostra come, lungi dall’essere perseguitati, i bianchi sudafricani continuino a vivere molto meglio dei loro compatrioti di diversa etnia.


[1] International Monetary Fund.

[2] The Observatory of Economic Complexity.

[3] World Bank Open Data.

[4] Cfr. Anine Kriegler–Mark Shaw, A Citizen’s Guide to Crime Trends in South Africa, Jonathan Ball Publishers, Johannesburg 2016.

[5] https://www.washingtontimes.com/news/2018/aug/20/south-africa-begins-seizing-white-owned-farms/

[6] https://www.pewresearch.org/fact-tank/2013/12/06/chart-of-the-week-how-south-africa-changed-and-didnt-over-mandelas-lifetime/

[7] https://www.bbc.com/news/world-africa-27252307

[8] https://africacheck.org/reports/are-white-afrikaners-really-being-killed-like-flies/

[9] https://africacheck.org/factsheets/factsheet-statistics-farm-attacks-murders-sa/

Foto di Chickenonline da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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