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Il mio Honduras: l’orfanotrofio di Rancho Santa Fe

All’inizio José era solamente uno dei 400 bambini di Rancho Santa Fe, un orfanotrofio situato nella foresta a un’ora di viaggio da Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras. Ma quel viso sorridente che spiccava fra tutti i suoi tanti “hermanos” era destinato a diventare molto di più per me.

Ricordo perfettamente il giorno in cui entrammo in contatto per la prima volta e come sempre, quando ci ripenso, mi si stampa un sorriso in faccia. Ero seduta in cerchio con i bambini di Casa Suyapa (una delle sedici casette che stanno all’interno del Rancho) quando fra tutti i sorrisi e le risate notai che un bambino mi stava facendo una linguaccia. All’inizio gli risposi con un sorriso quasi di circostanza pensando che la cosa sarebbe finita lì, ma quando mi accorsi che lui invece continuava a insistere con i suoi sberleffi, decisi di rispondergli a mia volta con una pernacchia. Scoppiammo a ridere entrambi, e fu una risata piena di complicità, un modo di rompere il ghiaccio tra di noi che funzionò meglio di tante parole.

Il giorno seguente incontrai José mentre tornava da scuola e decisi di accompagnarlo per un tratto di strada. Iniziammo così a parlare e ad avere la nostra prima vera conversazione. Avrei voluto sapere subito tutto di lui, qual era la sua storia, ma non sapevo bene come affrontare questi argomenti con lui, avevo quasi paura che a quel punto avrebbe potuto tirarsi indietro, rovinando così quel rapporto di fiducia che stavo costruendo.

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Gaia e José

Credo di avere conquistato definitivamente José assecondandolo nella sua passione per gli insetti e seguendolo nelle sue esplorazioni alla loro ricerca. Devo però confessare che questa cosa mi è costata non pochi sforzi, soprattutto per cercare di mascherare la mia riluttanza verso quegli animaletti (e vi assicuro che in Honduras ne ho visti di inimmaginabili!) che a me sembravano davvero disgustosi. Ma il suo sorriso felice tutte le volte che riusciva a farmene vedere uno nuovo era davvero impagabile.

La storia di José non l’ho saputa da lui ma è stato il direttore del Rancho a raccontarmela. José è nato in una delle innumerevoli baracche che si trovano alla periferia di Tegucigalpa. Il padre aveva abbandonato sua madre quando ancora era incinta e fin da piccolo egli fu costretto a subire i suoi maltrattamenti. Fu sua nonna a quel punto che, per salvare il piccolo José, lo portò a vivere con sé. Ma purtroppo, poiché viveva nella miseria più assoluta, non riusciva a prendersi cura di lui e fu per questo che prese la decisione di portarlo al Rancho.

José ha oggi 7 anni. Forse, perché della sua data di nascita non c’è riscontro. Dei suoi genitori si sono perse le tracce. Potrebbe avere fratelli o sorelle, ma anche di questo non c’è alcuna certezza. Mai avrei immaginato che tutto questo potesse nascondersi dietro quel sorriso dolcissimo. Ma la storia di José mi ha spinto a volerne sapere di più di come vive la gente in Honduras e di quali sono i problemi di quel Paese. Sono state le “tias” (si chiamano così le signore che si occupano dei bambini) del Rancho la mia fonte di informazione privilegiata.

Il numero dei bambini che vengono abbandonati ogni anno è impressionante e solo i più fortunati hanno l’opportunità di essere accolti in strutture come il Rancho Santa Fe, che possono esistere esclusivamente grazie a forme di solidarietà internazionale (il Rancho fa parte della rete N.P.H.). Una causa fondamentale di questo fenomeno è legata alla condizione della donna in Honduras. È normale che le giovani donne rimangano incinte in seguito a violenze, è normale che poi vengano abbandonate a se stesse e allontanate anche dalle loro famiglie. È perfino normale che le donne nascondano quando si ammalano (soprattutto di malattie importanti come ad esempio i tumori), facciano di tutto per tenerlo nascosto e non cerchino in alcun modo di curarsi, perché anche questo è un motivo per cui vengono abbandonate.

E sono poi i bambini come José che pagano un prezzo altissimo per tutto questo. La prossima estate al Rancho Santa Fe ci torno senz’altro. Voglio rivedere José, anche perché, adesso che l’ho adottato (a distanza, ovviamente), voglio cercare in tutti i modi di aiutarlo ad avere un futuro… magari come entomologo!

 

Gaia Zorzi per “Segnali di fumo – il magazine sui Diritti Umani”

Questo articolo è stato pubblicato qui

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