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Il governo che ci aspetta

L’informazione segue logiche che le sono proprie. A osservarle con una certa attenzione non sfugge la regola costante che alcune notizie si affastellano per qualche tempo nelle prime pagine mentre altre sono sottaciute o collocate nelle pieghe recondite della ragnatela penzolante di immagini che essa stessa produce e cancella. Così ci facciamo l’idea di cosa ci troviamo a pranzo e degli ospiti con cui abbiamo più o meno direttamente a che fare.

La vicenda dei rapporti telefonici avuti dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri con alcuni membri della famiglia Ligresti ha, inaspettatamente, scoperchiato l’Italia che tutti sospettavamo, ma che nessuno avrebbe immaginato potesse essere rappresentata anche da una figura governativa che ritenevamo estranea alle trame oscure del potere. Il potere è come un edificio antico. Se non lo controlli e non usi sistematicamente gli strumenti adatti per tenerlo in ordine e pulito, fa anche lui le ragnatele, prende umidità e produce polvere e muffa. Così l’inconveniente occorso alla Cancellieri può essere considerato come un coperchio alzato per caso su una pentola in eterna ebollizione, fabbrica attiva di tutte le mediazioni e fermentazioni immaginabili, comprese le putrefazioni spontanee.

Qui le sorprese non finiscono mai. Lo Stato-potere genera se stesso, è causa prima e soggetto che costruisce e distrugge. La scomparsa politica di Berlusconi o la sua attuale riduzione crepuscolare sono solo un aspetto marginale della fisiologia di questo potere e dei codici che esso si dà per esistere, anche se sentiamo che fa fatica per essere a tono con se stesso. Le caratteristiche del suo potere sono il volto buono e gli scopi necessari e virtuosi che deve proporsi. Lo Stato vive di percezioni: è la percezione che ne hanno gli altri. Gloria, mito, grandezza. Ma oggi non è così e bisognerebbe inventare il lessico più adatto a scegliere le parole giuste nel dizionario dei sinonimi e contrari. Così al posto di gloria dovremmo usare i termini: disonore, infamia, oscurità o anche vergogna. Al posto di mito e mitico: fetecchia, banale, mediocre, modesto e ordinario. E al posto di grandezza: banalità, meschinità, piccolezza o, meglio ancora, bassezza e grettezza.

Dunque, al centro dell’attuale politica italiana, io non intravedo altra scena che quella che si sta recitando in primo piano con il contorno di queste aggettivazioni e con le gelide luci che evocano tristi scene sullo sfondo. Con i veri protagonisti al di là delle quinte. Anch’essi illuminati, dal basso verso l’alto, come mummie di chissà quale altro mondo. Tutte appartenenti alla macchina del potere. I soggetti in primo piano francamente mi interessano poco. Ballano, ognuno con le sue presunzioni, con le sue caratteristiche e le sue allegrie. Ma non contano niente. Questa condizione fantasmatica non mi capita se penso alla Francia di Hollande, alla Germania della Merkel, o alla Gran Bretagna di Cameron.

Sullo sfondo, nella nostra penisola, vedo altri personaggi: con il loro buonismo e il loro moralismo astratto. Con la capacità di fustigare e ammonire, persino rispetto a magistrati che hanno sempre fatto il loro scrupoloso dovere; i discorsi forbiti, le venature patriottarde, mentre il Paese muore, con i suoi disoccupati, i suoi nuovi poveri, i suoi crescenti casi senza speranza. Ad ascoltarli o a percepirli, è istantaneo il divario da un’altra storia, da un altro modo di sentire il popolo. Ed è questo distacco che mi fa capire cosa gli italiani hanno perduto, in modo più accelerato in quest’ultimo ventennio, della loro storia e dei loro valori. Perché c’è un istinto di essere italiani. Non è l’aria del palazzo o per il palazzo, ma il senso del popolo e della sua sofferenza, la cultura, l’ingegnosità e l’arte che li hanno da sempre pervasi e che oggi sono moribonde.

Ricordo ancora i funerali di Stato per Placido Rizzotto, il sindacalista di Corleone ucciso dalla mafia. In quella occasione il presidente della Repubblica volle consegnare una medaglia ai familiari di questo grande dirigente. Ebbe un’ottima idea. Ma ignorò di fare altrettanto per tutti gli altri dirigenti sindacali morti in quegli anni per lo stesso motivo. Rizzotto ebbe un processo che mandò assolto Luciano Liggio. Ma gli altri non ebbero neanche l’istruttoria di un vero processo. Così Miraglia e Cangelosi e molti altri aspettano ancora non una medaglia che non hanno mai avuto e che non vorrebbero, ma un cenno di riconoscimento ufficiale, segno di dignità, di affermazione del diritto di tutti alla giustizia e alla verità. Anche questa incuria è segno della decadenza.

Sul palco si rappresenta l’autorevolezza. La sensazione che si prova, però, è che essa stessa sia finzione. Con i suoi simboli, stendardi, toni di voce, troni e corone varie di cui ci si autoploclama detentori. Avendo attorno amici e gruppi di amici, gente che si riempie la bocca di parole retoriche, di nomi lanciati al vento, di storie di singoli buttati alla deriva, anche se storie di tutti. Un potere che è stato vissuto da altri in questi anni e che è diventato palpabile come bisogno di comando e di sudditanza, di decidere e di farsi ubbidire. Cos’altro significa che un qualsiasi cittadino, sia pure il presidente della Repubblica, dica a un tribunale che lo ha convocato o che potrebbe farlo tutte le volte che gli pare, che in merito ai rapporti tra mafia e Stato non ha nulla di “utile” da dire? Ma Napolitano non è stato anche ministro dell’Interno?

Siamo stati abituati negli ultimi decenni a un altro genere di italiani rispetto a quelli con cui abbiamo avuto a che fare fino agli anni ’90. Gli italiani che abbiamo avuto nell’ultimo quarto di secolo sono, mutatis mutandis, come Berlusconi e Salvatore Li Gresti con tutto il corredo delle loro storie. Voglio dire, la cultura della povertà o della moderazione, o quella che Orazio chiamava dell’aurea mediocritas, è stata disprezzata. Il valore unico è il denaro, il dio denaro. A destra e a sinistra o al centro. E ad esso corrispondono mediazione e parassitismo. Il resto è niente. I Ligresti sono un pezzo vincente di questa storia.

Il ragazzo di Paternò (Catania) va a fare il militare a Milano e vi resta facendo la sua carriera di affari in quella che un tempo si chiamava “Milano da bere”. Diventa uomo tanto potente da controllare Società, banche e appalti. Milano fu la città di Craxi e Pini, della grande speculazione sulle aree edificabili e sugli appalti. Poteva don Salvatore lasciarla? Da qui egli costruisce i suoi rapporti con decine di uomini di potere. Con Enrico Cuccia, ad esempio, il padre padrone di Mediobanca. O con l’uomo di Arcore, il modello più completo della congiunzione tra politica e affare. E da qui, via via, arriva ai processi intentati contro di lui dalle procure della Repubblica di Milano e Torino. Al Pm Luigi Orsi, che indaga nell’ambito dell’inchiesta Fonsai, in un interrogatorio del 15 dicembre 2012, dice – smentito dall’interessata – di avere segnalato la Cancellieri a Berlusconi, perché rimanesse a Parma a fare il prefetto. E’ possibile che il ministro non abbia chiesto questo, ma a cosa si riferisce allora don Salvatore? Si inventa tutto o si confonde?

I personaggi di questo sfondo, comunque, stanno seduti come fantasmi che assistono a ciò che accade sulla scena. Non rappresentano l’Italia che vogliamo, ma quella che ci stiamo lasciando alle spalle, anche se qualche pessimista continua a ripetere la solfa del berlusconismo come irredimibile carattere degli italiani. Può darsi che esso perduri ancora un po’, ma è venuto il momento di costruire l’Italia che vogliamo.

Non saranno Renzi, o Cuperlo, Civati, Grillo, quelli che si definiscono nuova destra o altri a farlo. Non saranno i quattro sottosegretari di Forza Italia a mutare, con le loro dimissioni dal sottogoverno, il quadro che abbiamo davanti, neanche se tornasse redivivo Berlusconi. Ma la Pietà di cui gli italiani sono stati sempre dotati. Una Pietà cristiana, in cui a prevalere, se non si vuole il peggio, saranno la sopportazione e la commiserazione, lo sguardo distaccato e di condanna di quella maledetta presunzione che hanno i cretini quando vogliono galleggiare, senza sapere che galleggerebbero sempre e comunque, per una legge fisica che non gli è dato controllare. In attesa che qualcosa di nuovo nasca in diverse parti del mondo e che ciascuno di noi, con una diversa consapevolezza, dia un contributo in questa direzione.

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