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Il debitalismo e i padroni del cibo

"Gli uomini affamati ascoltano soltanto quelli che hanno un pezzo di pane. Il cibo è uno strumento, un’arma nel paniere negoziale degli Stati Uniti" (Earl Butz, 1968).

Il debitalismo e i padroni del cibo

Da questa riflessione si può capire l’importanza del saggio “I padroni del cibo”, che indaga le politiche e le strategie delle aziende agroalimentari e delle società commerciali nazionali e internazionali (Feltrinelli, 2009). L’autore è Raj Patel, uno studioso delle politiche alimentari che ha lavorato per la Banca mondiale e per il Wto, che conosce molto bene i limiti e gli interessi di queste organizzazioni. Dopo aver viaggiato in tutto il mondo ha potuto affermare che ha “visto molti più fanatici in una facoltà di economia che tra gli occupanti delle terre in Brasile” (p. 190).

Il libro è molto complesso e dettagliato per cui mi limiterò a riportare solo qualche questione centrale. George Naylor, agricoltore americano leader della Family Farm Coalition, afferma: “La verità palese a quasi tutti i contadini è che i prezzi delle derrate, più bassi che agli inizi degli anni settanta, uniti ai prezzi delle cose che compri per coltivare e mantenere la famiglia ai livelli dell’anno 2000, rendono quasi impossibile campare dell’agricoltura”. Quindi siccome nel medio e lungo periodo il prezzo del petrolio, dell’energia e delle tasse aumentano sempre, si sono tenuti bassi i prezzi del cibo per calmierare l’inflazione e le famiglie sono costrette ad indebitarsi e a fallire. La morte dei piccoli fa la felicità dei più grandi che si possono ingrandire ancor di più, finché l’economia agricola giungerà al limite di rottura dovuto all’eccessivo sfruttamento della terra.

Le multinazionali agricole "controllano il 40 per cento del commercio mondiale, con venti aziende che controllano il commercio globale di caffè, sei che controllano il 70 per cento del commercio di frumento e una che controlla il 98 per cento del tè confezionato” (Arcal e Maetz, 2000). Quindi la concentrazione di mercato garantisce meno concorrenza e più potere commerciale alle grandi imprese, che arrivano a “parassitare” i clienti o a schiavizzarli tramite dei finanziamenti che scaricano tutti i rischi sulle spalle dei lavoratori della terra (è la dittatura della cultura finanziaria che divora le energie delle classi più deboli, economicamente e culturalmente).

Ma lo stesso processo debitalista ha avviato il genocidio di quasi tutti i generi di piccole e medie imprese che sono costrette a lavorare ai prezzi imposti dalle grandi imprese sempre più ingorde, con le tasse stabilite da politici sempre più sperperatori. E sono oberate dagli interessi allucinanti delle banche sempre più usuraie, che utilizzano il ciclo del debito per espropriare i beni dei lavoratori e degli imprenditori. Solo chi può vantare amicizie politiche e bancarie si può salvare. E ora apro una piccola parentesi: dato che le banche godono del signoraggio dovuto al processo di creazione della moneta relativo al credito, un interesse legale del 3 o 4 per cento sarebbe più che sufficiente per farle prosperare (a chi è in sofferenza economica segnalo www.liberidaidebiti.it).

Comunque per capire meglio uno di questi fenomeni, riporterò l’esempio della coltivazione del caffè dove ci sono pochi grossisti e distributori e innumerevoli produttori. In questo modo le multinazionali determinano il prezzo minimo del caffè che è inferiore ai costi di produzione. “Le leggi della domanda e dell’offerta suggeriscono che i piantatori di caffè dovrebbero uscire dal mercato e fare qualcos’altro, ma ciò presupporrebbe che ci sia qualcos’altro da fare. Troppo spesso non è così (in un certo suolo o a una data altitudine e latitudine si possono coltivare solo alcune piante). Il risultato immediato dei bassi redditi delle campagne è l’auto sfruttamento causato dal panico. Invece di gettare la spugna e trasferirsi in città, o cercare di coltivare altro, i contadini coltivano più caffè, spaccandosi la schiena e racimolando più che possono… e certe volte, controvoglia, danneggiano l’ambiente nel tentativo disperato di sopravvivere” (p. 13). Il prezzo del caffè per i consumatori non varia, o aumenta, e tutto il valore aggiunto viene incassato dalle grandi aziende di distribuzione. Infatti le procedure di lavorazione, distribuzione e commercializzazione a lunga distanza richiedono “enormi capitali, insomma devi essere ricco se vuoi entrare in ballo” (p. 16).

Dunque “l’attuale sistema agroalimentare è stato plasmato da una serie di forze, specifiche, casuali e mercenarie, e i poveri delle campagne sono diventati la componente più sacrificabile del sistema” (p. 61). La povertà ha iniziato a colpire Messico, India, Brasile (dove dilaga lo “schiavismo da soia”), Corea e molti altri paesi, e senza far nulla raggiungerà presto anche i paesi più progrediti. Tra le altre cose i profili degli agricoltori che si sono suicidati per i debiti sono molto simili nei diversi paesi: erano onesti maschi di mezz’età, religiosi, amati dalla comunità e molto dediti alla famiglia (Malcolm, 1985).

In realtà quasi tutte le aziende commerciali sono riunite in caste che contrattano i propri guadagni con i politici e che influenzano le università attraverso le donazioni. Come affermò l’ex presidente di una catena di supermercati americani: “Il concorrente è il nostro amico e il cliente il nostro nemico… Non esiste un grammo di alcunché al mondo che sia venduto in un libero mercato. L’unico posto in cui esiste un libero mercato sono i discorsi dei politicanti” (Dwayne Andreas, 1995). Ad esempio nel 2000 in America latina i supermercati sono arrivati a controllare oltre il 50 per cento del mercato alimentare, mentre nel 1990 ne gestivano solo il 10 per cento.

Quando si creano oligopoli che gestiscono troppe quote di mercato si rischia l’effetto “desertificazione” da predatore troppo forte, con tutte le problematiche dimostrate dall’attuale globalizzazione deregolamentata. Ora tocca agli economisti fare degli studi meno ideologici e ai politici stabilire delle regole continentali e mondiali. Infatti è inammissibile che non ci siano diritti sindacali e minimi salariali continentali o mondiali per tutti gli aderenti al mercato globale (WTO). 

Perciò i veri cittadini e i veri imprenditori “vogliono soltanto tenere sotto controllo il mercato invece di esserne controllati” (p. 185). E chiudo con il pensiero del giornalista indiano Palagummi Sainath: “Quanto soffriamo per la gente che muore. Quanto siamo indifferenti a come vive” (per avere maggiori informazioni sui suicidi degli agricoltori indiani si può indirizzare una e-mail a [email protected]).

Nota – In questo libro viene segnalata “La rivoluzione del filo di paglia”, un’opera molto originale di Fukuoka Masanobu, un autodidatta giapponese che si occupa di agricoltura naturale (da pochi giorni è uscito anche “La rivoluzione di Dio, della Natura e dell’Uomo”, LEF, Firenze). Purtroppo ne avremo bisogno molto a breve, poiché con la forte crisi economica, il probabile collasso finanziario e il prossimo inverno straordinariamente rigido dovuto all’eruzione del vulcano islandese, le risorse a nostra disposizione diminuiranno e le cose si metteranno piuttosto male.

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