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Il comune senso dell’offesa

Ancora fresco lo zibaldoniano sdegno unanime per la strage di Charlie Hebdo e prima della caterva di distinguo, dei se dei ma e dei jenesuispascharlie che seguono tutt’oggi, una notizia ha distratto e per certi versi integrato il dibattito sugli “estremismi” religiosi. Giungeva infatti voce dall’Arabia Saudita di come un importante teologo islamico avesse ritenuto i pupazzi di neve contrari alla legge coranica, perché riproduzioni di sembianze umane. E talmente corali e mondiali ne sono scaturiti critiche e scherno, da indurre lo stesso autore della fatwa a specificare meglio e a concedere come non blasfemi quei pupazzi simili a spaventapasseri, privi cioè di testa o comunque di fisionomia riconoscibile.

Si, forse fa un po’ ridere. Forse. Non perché in un’ottica multiculturalista spinta anche le credenze più “strane” (qualunque cosa voglia dire) hanno diritto pieno di cittadinanza e rispetto, quanto piuttosto perché contorsioni similari nel nostro civilissimo diritto codicistico non mancano, anzi. Forse, anche qui, perché è l’introduzione stessa della tutela privilegiata e particolare del fattore religioso, del sacro in quanto tale, in una legislazione che si vorrebbe vedere fondata secondo Costituzione sull’equidistanza del pubblico e sull’uguaglianza dei cittadini, a comportare necessarie distorsioni, tanto del diritto quanto del buonsenso. A partire dalla, meno fanciullesca di quanto possa sembrare, considerazione di come nessun Dio, entità dall’esistenza non determinata, possa o abbia mai potuto conferire procura formale a qualsivoglia difensore terreno.

L’attuale art. 724 del nostro codice penale, così come esteso dalla Corte Costituzionale a tutte le religioni, non solo alla cattolica, e a seguito della depenalizzazione del 1995, sanziona come illecito amministrativo passibile di pena pecuniaria “le invettive o le parole oltraggiose contro la Divinità” pronunciate pubblicamente. Poiché la stessa Corte ha però escluso la tutela nei confronti di Persone e Simboli, come prevedeva il codice Rocco, tanto per dirne una le offese nei confronti della Madonna non sono perseguibili se non dal buon gusto. Attenzione però a non insultare un manufatto che ne riproduca le supposte sembianze: in questo caso entra infatti in gioco l’art. 404 c.p., “Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose”, che punisce con multe fino a 5000 euro le “espressioni ingiuriose” nei confronti di cose oggetto di culto. Statue di gesso vs pupazzi di neve.

La tutela della divinità astratta e non provabile è cosa ben diversa dalla tutela del singolo individuo: non sarà un caso se anche nei molti paesi dove non è affatto prevista la persecuzione della blasfemia vi sono invece robuste norme contro la diffamazione e la calunnia. Eppure sembrerebbe che affermare che Dio non esiste e che quell’individuo specifico sia, che so, un mafioso pedofilo integrino la stessa fattispecie, la fattispecie dell’”offesa”.

Perché, secondo il sillogismo fideistico, anche la prima affermazione è ingiuriosa; forse non si può dire lo sia direttamente per il soggetto in questione (chi gliel’ha chiesto, a Dio, se si è offeso?) ma di sicuro lo è per chi invece di quell’esistenza è convinto.

E quindi sulla base dell’offesa ben venga una censura, anche e soprattutto preventiva, di ciò che solletica la suscettibilità moralreligiosa, per sua natura molto meno incline a categorizzazioni dogmatiche sul permesso e sul proibito di quanto si pensi. Censura variamente graduata, certo, così come vari i deterrenti: dall’ammenda pecuniaria alle frustate alla pena di morte. Qualche differenza c’è, ci mancherebbe. Ma la radice resta comune: il fatto che l’offesa, come danno morale alla dignità di una persona, secondo dizionario, sia presupponibile e rafforzabile nel caso entri in gioco il fattore divino.

Non che manchino al contrario le offese a chi il divino lo espunge, cioè agli atei e all’ateismo: che non godono però di alcuna tutela particolare, anzi, di alcuna tutela tout-court. Liberi quindi di dichiarare giovialmente “senza dio” terroristi che uccidono invocando Allah, non liberi al contrario di ridicolizzare aspetti contraddittori del fenomeno religioso, perché sennò “ce le si va a cercare”. Anche le mamme peraltro vanno lasciate stare, di ’sti tempi.

La libertà d’espressione barattata con la permalosità: permalosità che è difficile da stabilire quanto sia prima individuale o prima collettiva, massmediaticamente fomentata cioè più che interiormente sentita. Perché su tutto regna il potere assoluto dell’offesa, di quel danno morale di cui sopra che legittima azione e reazione, quasi qualsivoglia siano, in difesa di cosmogonie personali non necessariamente, e sicuramente non a forza, condivisibili.

Adele Orioli, responsabile iniziative legali Uaar

 

Foto: taymtaym/Flick

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