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Il comportamento elettorale

Con una certa frequenza accade che ci siano risultati elettorali “sorprendenti” che i commentatori politici fanno fatica a spiegare, oppure, ancora più spesso, che i sondaggisti siano clamorosamente smentiti dai risultati. Ma, soprattutto, accade molto spesso che gli elettori (anche quelli colti ed informati) non riescano a spiegarsi improvvise avanzate o catastrofiche sconfitte, che appaiono immotivate quantomeno nelle dimensioni, oppure come mai il tale partito che sembrava avviato a sicura sconfitta abbia “tenuto” contenendo al minimo le perdite o non perdendo affatto.

Questo dipende dal fatto che, nella maggior parte dei casi, si giudica in base a spiegazioni monocausali e seguendo una logica lineare causa-effetto.

Ad esempio: si ritiene che gli elettori siano particolarmente sensibili ad un a questione particolare, come l’occupazione, per cui, se nel periodo precedente alle elezioni i dati occupazionali sono drasticamente peggiorati, ne consegue che il partito (o i partiti) al governo dovrebbero subire una cocente sconfitta.

Magari, al contrario, se i dati occupazionali sono nettamente positivi questo dovrebbe premiare chi governa. Poi, però, accade il contrario delle aspettative e chi dovrebbe essere penalizzato, o al contrario, premiato non lo è affatto. Come spiegarlo?

In primo luogo l’elettorato non è un giudice monocratico ed è composto da varie frazioni mosse da interessi e pulsioni diverse per cui, anche nel caso in cui ci sia una tematica prevalente (ad esempio l’occupazione) ci saranno altre frazioni dell’elettorato più sensibili ad altre tematiche come l’immigrazione o il fisco, per cui accade che, magari la fascia maggiore (quella che ha la priorità occupazionale) si muova nella direzione coerente con l’andamento occupazionale, ma con scarti limitati, mentre è cresciuto fortemente il dissenso su questioni come l’immigrazione ed il fisco (magari in fasce diverse e divaricanti) c questo ha causato flussi in uscita maggiori di quelli in entrata ed i partiti di governo le elezioni le perdono.

Per di più lo stesso singolo elettore può essere attraversato da più ragioni, ad esempio può essere interessato soprattutto ad un tema e meno ad altri, ma essere solo parzialmente soddisfatto sul suo tema di elezione, ma in forte dissenso su un’altra questione e, quindi, essere spinto a votare più per il tema meno importante ma di cui avverte la maggiore distanza.

E’ un esempio volutamente molto semplice, ma che dice che la scelta del voto non è mai monotematica o monocausale, ma sempre la risultante di più spinte presenti nello stesso elettore e non si tratta solo di valutazioni direttamente politiche ma spesso anche di altra natura (spinte ideologiche, simpatia o antipatia per un determinato candidato o leader, appartenenza organizzativa eccetera).

Ma soprattutto, occorre considerare l’interdipendenza di queste variabili, per cui il rapporto causa-effetto non è mai lineare e segue la logica della complessità. Per comprendere questo andamento non lineare conviene tipizzare le diverse possibili motivazioni di voto:

-ideologiche (sono un convinto seguace del buddismo e voto per il partito buddista)

- di appartenenza (la mia famiglia ha sempre votato per il partito X da tre generazioni ed io continuo; sono iscritto al partito A e, per in forte dissenso con la linea che sta attualmente seguendo, voto per A per obblighi di lealtà)

- di interesse sociale (voto per il partito che è più vicino alla mia categoria) o territoriale (voto per il partito che difende gli interessi della mia regione o vallata) o personale-clientelare (voto per il partito A perché mi ha dato il posto di lavoro al Comune)


di utilità (per ragioni ideologiche dovrei votare A che però probabilmente non raggiungerà la soglia di sbarramento e resterà fuori del Parlamento, per ragioni di categoria dovrei votare B che però è troppo piccolo per pesare nelle decisioni, per cui voto C che è un partito più grande e che, pur se non combacia con le mie convinzioni ideologiche, ed ha una posizione debole sui temi di interesse della mia categoria, però è quello che, approssimativamente, li può rappresentare meglio)

- di competizione (voto A non perché ne condivida la linea o sia soddisfatto delle sue proposte per la mia categoria o il mio territorio, ma perché, se non voglio che vinca il partito B che reputo il male peggiore, è quello che ha più possibilità di batterlo).

Ovviamente, uno stesso elettore può essere mosso anche da più di un tipo di motivazione, ed alla fine decidere con una sorta di calcolo ponderale in cui prevale una opzione o l’altra. Facciamo l’esempio di un elettore di destra napoletano negli anni cinquanta: ideologicamente (o forse per ragioni di appartenenza familiare) avrebbe dovuto votare per il Msi o i monarchici, ma alla Camera, molto probabilmente, avrebbe potuto votare Dc in funzione anticomunista, non al Senato, dove è candidato un espnente socialdemocratico da quale si attende un favore; ma alle elezioni comunali voterà sicuramente per la lista comune Msi-Pdium che ha ottime possibilità di eleggere il sindaco Achille Lauro.

Poi, nel 1963 la Dc “apre” ai socialisti ai quali il nostro elettore è furibondamente ostile e probabilmente non voterà più Dc per punirla del “tradimento”, ma Pli in quanto partito che esprime l’opposizione “vincente” che può fornire una valida alternativa al centro sinistra. E di esempi simili ne potremmo fare molti altri.

Sulla base di queste considerazioni, possiamo individuare due tipi principali di elettorato: quello stabile e quello mobile.

L’elettorato stabile è essenzialmente quello ideologico o di appartenenza. Quello mobile riguarda le altre tre categorie. Beninteso: anche l’elettorato ideologico o di appartenenza può subire spostamenti (magari perché c’è stata una scissione nel suo partito di riferimento o per avvenimenti di eccezionale portata) ma, ovviamente, si tratterà di spostamenti molto limitati, spesso inferiori al 10% del totale, per cui difficilmente i partiti si dedicheranno alla ricerca del loro consenso: se un elettore è ideologicamente oppure organizzativamente legato ad un partito, per quel partito sarà sufficiente qualche iniziativa per confermare la fedeltà di quell’elettorato, e per il resto esso si dedicherà all’elettorato mobile, mentre trascurerà del tutto quello di fedeltà di altri partiti che richiederebbe uno sforzo troppo maggiore dei possibili risultati. Quindi, ogni battaglia elettorale si concentrerà sulla fascia contendibile, ma anche qui gli spostamenti saranno contenuti, perché più o meno tutti i partiti si scontreranno sulle stessp terreno.

Queste ragioni spiegano perché, a lungo, gli spostamenti elettorali sono stati minimi ed una avanzata o una flessione superiore all’1% era ritenuta una vittoria piena o una sconfitta. Per limitarci all’Italia, i due smottamenti elettorali più vistosi furono la vittoria della Dc nel 1948 (+ 13%) e della del Pci nel 1976 (+ 6,5%), eventi, appunto, del tutto eccezionali. Ma dal 1992 in poi, i flussi elettorali sono diventati sempre più massicci: nel 1992 la Lega (alla sua seconda presentazione) avanzò del 5%, poi nel 1994 Forza Italia, alla sua prima presentazione, conquistò il 24% mentre Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli scomparivano ed i, loro successori recuperavano meno di un terzo dei loro voti.

Nel 2013, alla sua prima presentazione il M5s conquistava il 25% mentre nel 2014, il Pd raggiungeva la cifra record del 41% (+ 16% rispetto alle politiche di un anno prima) ma, nel 2018 si riduceva al 18% perdendo il 23% dei voti rispetto alle europee di 4 anni prima. Un andamento a valanga con ritmi sempre più serrati. Questo sorgere improvviso di nuovi partiti o, vice versa, questa frana dei partiti tradizionali, che sembrava un fenomeno solo italiano, è andato via via espandendosi in Europa: in Grecia Siriza ha rimpiazzato in pochi anni il Pasok, in Francia il Fn ebbe un primo forte successo nel 1999 alle presidenziali nelle quali si impose al ballottaggio, situazione ripetuta nel 2017 quando ha conteso il passo al nuovo partito di Macron “En Marche” che in un colpo ha superato i gollisti ed ha liquidato il Ps.

In Spagna sono sorti di colpo Podemos a sinistra e Ciudadanos a destra. In Germania Afd in pochi anni ha conquistato il 15%. In Inghilterra c’è stato un effimero successo liberale nel 2004, poi è sorta l’Ukip. E potremmo proseguire. Dunque, questo andamento sussultorio è ormai una dimamica europea e, per certi versi, anche degli Usa se esaminiamo l’imprevisto successo di Tramp.

Come mai non si verificano più gli spostamenti millimetrici del passato ed ormai le ondate sismiche si susseguono? Probabilmente ci sono diverse ragioni, quella principale è forse i paralleli processi di espansione del ruolo dei media radio televisivi e di logoramento degli apparati organizzativi dei partiti. Non a caso l’Italia ha aperto la strada a tutto questo: lo sciagurato referendum del 1993 ha prodotto la liquidazione dei partiti come organizzazioni territoriali diffuse sostituendoli con effimeri comitati elettorali coordinati da piccole oligarchie solidamente sostenute dal sistema mediatico.

Quando di è prodotta la crisi la terra non più trattenuta dalle radici delle organizzazioni di partito è franata all’improvviso ed è significativo che i vertici dei partiti tradizionali sono stati i più sopresi del terremoto, il che dice quale fosse il loro distacco dalle rispettive basi elettorali. La liquidazione delle ideologie, la distruzione della cultura politica diffusa, il malessere prodotto dalla crisi eccetera hanno fatto il resto. E questo spiega questo andamento sussultorio che produce instabilità senza mutamento.

E, se questo dovesse proseguire a lungo, ad essere minata dalla base sarà la democrazia rappresentativi ma non per fare spazio alla democrazia diretta che qualcuno sogna, quanto piuttosto ad un regime plebiscitario ed autoritario dove ai partiti si sostituirà la figura dell’uomo forte.

Aldo Giannuli

Questo articolo è stato pubblicato qui

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