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Il capitalismo egoista e il capitalismo sociale

“Il capitalista egoista” è la nuova opera del brillante psicologo, scrittore, produttore e presentatore Oliver James (www.codiceedizioni.it, 2009).

La tesi dello psicologo inglese è molto semplice: il progressivo affermarsi dell’ideologia liberista del capitalismo egoistico ha creato persone più materialiste e l’attuale cultura anglosassone è causa di maggiore stress e quindi origina più disturbi psicologici (e un maggior consumo di farmaci). La competizione esasperata (e la mancanza di una buona assistenza sanitaria) favorisce un eccessivo accumulo di stimoli stressanti e destabilizzanti: l’elevato divario economico tra le classi sociali, i lavori sottopagati, i divorzi, la perdita del lavoro, gli ideali di bellezza, l’inquinamento, il traffico.

Si può definire capitalismo egoista quella politica economica dove le aziende vengono principalmente valutate in base al valore di borsa, piuttosto che in rapporto ai risultati economici fondamentali. Le aziende diventano delle merci e dei simboli da contrattare che tramite gli speculatori, i manager e i banchieri d’affari creano le bolle della borsa. Inoltre il capitalismo liberista tende a privatizzare i servizi della collettività: acqua, telefono, energia, ecc. La terza caratteristica principale è la mancanza di regolamentazione e controlli sulle attività economiche, finanziarie, del mercato del lavoro e una ridistribuzione delle tasse insana. L’ultima caratteristica è quella più arcaica, impersonale e misteriosa: “è la convinzione che le forze del consumo e di mercato possano soddisfare qualsiasi tipo di necessità umane” (p. 67).

In realtà lo scienziato politico americano David Harvey ha dimostrato che il neoliberismo può esistere sotto varie forme e può coesistere con successo sia con la sinistra sia con la destra politica, tanto da essere adottato in forma modificata dalla Svezia socialdemocratica, dalla Danimarca, dalla Cina e da vari paesi dell’ex Unione Sovietica (p. 68). Il vero capitalismo egoista è nato dal “Washington Consensus”, un elenco di undici impegni politici chiave stilati in gran parte da economisti britannici e statunitensi per facilitare la globalizzazione dopo il 1975. Però è bene ricordare che “negli anni Ottanta i casi di successo economico non sono stati la Gran Bretagna o gli Stati uniti, bensì la Germania e il Giappone” (p. 76). Inoltre mentre il Regno Unito ha dilapidato i proventi derivanti dal petrolio del Mare del Nord, la Norvegia ha creato un fondo nazionale a garanzia di investimenti e pensioni. Del resto questa politica di Darwinismo sociale che ritiene che gli individui tendono a massimizzare i loro guadagni a scapito del prossimo, non tiene conto che gli esseri umani sanno “essere anche altruisti: preoccupati dell’equità e della reciprocità, pronti a sacrificare i guadagni e a punire chi non si comporta in modo leale” (p. 70). Inoltre le ultime economie liberiste sono state costruite principalmente sul debito e sul vuoto morale, e ben poco sulle infrastrutture produttive: i dirigenti hanno dato la priorità a se stessi e agli azionisti per raggiungere alcuni risultati a breve termine con il marketing, l’ingegneria finanziaria e la “contabilità creativa” (pilotata a loro favore), trascurando però i reinvestimenti e l’innovazione necessari per avere una solidità a medio e lungo termine (Will Hutton, giornalista economico).

Anche Tim Kasser e i suoi colleghi ritengono che gli obiettivi estrinseci delle persone materialiste tendono a creare insicurezza, disagio emotivo, autostima più bassa e relazioni meno autentiche (p. 59). Dunque gli obiettivi dettati dalle mode e dalle varie gerarchie presenti in queste società deprimono i sentimenti di benessere individuale. Anche se risultano più importanti le motivazioni alla base di particolari obiettivi: una persona può anche decidere di fare carriera o di ottenere tanti soldi più per sfida personale che non per ricercare fama e potere (C. Carver e E. Baird, 1998).

C’è da dire che la cosa più interessante di questo libro è il grande lavoro eclettico di meta-analisi. L’autore ha analizzato molte ricerche in diversi campi del sapere: in ambito sociologico, psicologico ed economico. Il tutto corroborato da molte statistiche incrociate di cui è meglio riportare qualche esempio significativo: dagli anni Settanta sono diminuite le tasse per i ricchi e sono scesi gli stipendi reali (p. 71), in Gran Bretagna la liquidità dei più ricchi è aumentata di circa l’80 per cento e lo 0,3 per cento della popolazione possiede la metà della liquidità del paese (p. 82). Nel 1975 un cittadino britannico di classe media viveva 5 anni e sei mesi meno di un cittadino ricco. “Nel 2002, gli anni sono diventati 9,5” (p. 88). La mobilità sociale inoltre non esiste quasi più: chi è nato dopo il 1970 ha trovato pochi posti di lavoro disponibili e le carriere più interessanti sono state occupate dai milioni di individui nati all’epoca del Baby Boom (anni ’50 e ’60). Il consumismo ha poi imposto uno sciame di desideri irrefrenabili alla continua ricerca dei bene migliori e più innovativi e la pubblicità onnipresente che mostra persone bellissime e benestanti, alimenta aspettative e aspirazioni spesso irraggiungibili per la quasi totalità della popolazione. C’è anche da aggiungere che da molti dati sembra emergere un’Italia che rassomiglia sempre più ai paesi anglosassoni (e dove ci sono troppe persone laureate e pochi lavori decenti). Quindi i governi ultraliberisti rendono ricchi i più ricchi e l’unica forma di aumento di ricchezza generale è determinato da un maggior contributo femminile e dagli orari di lavoro più lunghi: la divisione della torta degli incrementi della produttività viene fatta “di notte” (di nascosto) tra padroni, manager, banchieri, avvocati, pubblicitari, politici, consulenti vari e qualche “furbo” sindacalista.

Tra le note sentimentali riporto questo dato: negli anni Sessanta il 40 per cento delle donne americane non si sposavano per amore, ma volevano semplicemente essere indipendenti dai genitori e quindi si cercavano un marito simpatico, ricco o con la casa. Negli anni Ottanta la percentuale era scesa al 15%. Sarà reale questo aumento del sentimento amoroso o è la “moda sociale” dettata dai film americani e la “buona educazione” che suggerisce a molte donne di affermare che ci si sposa per amore? Lascio a voi il compito di arrivare alla difficile sentenza sociale e relazionale.

Comunque nella sostanza la grande pressione economica delle aziende americane sul suo governo ha influenzato la politica, le istituzioni, le università e i media di tutto il mondo. Pensiamo alla prima infanzia piena di pubblicità, le storie d’amore adolescenziali trasformate in un mercato molto attivo (cinema, regalini, musica, ecc.), e ancora il mito della bellezza e l’illusione della conquista della felicità attraverso gli interventi estetici. Quindi abbiamo acquisito un “carattere mercantile” e siamo diventati delle merci con un valore di scambio (Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea). Tutti vogliono essere importanti e famosi per essere amati ma sono pochi quelli capaci di amare. Invece alla fin fine la filosofia sociale di autorealizzazione Erich Fromm potrebbe ispirare una nuova forma di umanesimo economico creativo capace di far nascere una nuova creatura: il capitalismo sociale dell’esperienza relazionale. E nasceranno così nuove aziende capaci di tirare fuori il meglio da ogni persona: in Italia la larga diffusione dei festival culturali di vario genere è un chiaro segno di questo positivo cambiamento di direzione.

 

P. S. Io affiderei la gestione dei fondi europei destinati alla ricerca e allo sviluppo, ai funzionari delle nazioni europee che hanno dimostrato di ottenere i migliori risultati: Svezia, Finlandia, Danimarca, Lettonia, Estonia, Lituania, Germania.

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