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Il canto di Circe. Chiesa e destra politica

Il canto di Circe. Chiesa e destra politica

Un buon prelato della curia romana si lamentava con lo Spirito Santo: ”Spirito Santo, io non capisco. Di che avevamo bisogno? Una vita di Gesù (una sola!), una dogmatica, una morale, un rituale, un compendio di diritto canonico, e, per il popolino, il catechismo. Ed ecco quello che ci hai dato: quattro vangeli, e Paolo, e tutti questi libri della Bibbia così disparati!”.
 
Questo aneddoto (ripreso da Bellet, La quarta ipotesi, Servitium) può essere letto da due angolazioni: la prima evidenzia il carattere strutturalmente “ermeneutico” del messaggio cristiano. Il che significa non solo che quel messaggio può essere interpretato a partire da qualunque tipo di cultura e paradigma culturale, ma anche che il cristianesimo ritiene di conoscere Dio ma pure di non comprenderlo in modo pieno, per cui è consapevole del fatto che non sempre ha qualcosa da dire in suo nome. Un secondo tipo di lettura invece potrebbe guardare a questo aneddoto come a una spia del disagio e del disorientamento delle chiese cristiane di fronte al mondo moderno, al suo pluralismo e alla sua complessità
 
È pur vero che questo “spaesamento” si accompagna al venir meno di aspirazioni, evidenze e autorità che sono in gran parte quelle dell’uomo occidentale, ma le chiese cristiane sembrano sperimentare la fine di un mondo. Ci si trova infatti di fronte al consolidarsi di nuovi paradigmi culturali, molto lontani da quelli a cui le chiese sono ancora abituate e in cui sono ambientate: come risulta evidente anche dalla crisi di “pertinenza” e dalla sensazione di estraneità che caratterizzano il linguaggio ecclesiastico. È una situazione, questa, in cui il cristianesimo sembra aver perso il posto che occupava e l’iniziativa, riducendosi spesso a “resistere”, mentre il movimento dell’umanità si verifica altrove.
 
Nel nostro mondo, infatti, nonostante le apparenze, l’esperienza religiosa non appare più una high experience, un’esperienza forte generalizzata, ma si configura come «esperienza con esperienze»; essa dovrebbe dunque essere capace di inserirsi nel contesto (scambio, dialogo...) delle esperienze umane secolari, come interpretazione possibile delle esperienze umane, come «progetto di ricerca», per la ricerca di senso.
 
Ma se non si è capaci di questo nuovo posizionamento, scatta la paura, cattiva consigliera; tanto più in una ottica cristiana!
 
E allora diventano comprensibili indecisioni e sbandamenti. Possono emergere ingenue nostalgie di chiese “forti”, che fanno opinione e dettano le regole. In una situazione ormai “di minoranza”, sembra imporsi, anche ai vertici delle chiese, il ruolo di alcuni movimenti (ruolo condizionante, in un modo o nell’altro, in tutte le chiese) che – non di rado - esprimono il rifiuto della presente condizione di incertezza, fragilità e minoranza, adottando modelli forti, “militanti” e uniformi di cristianesimo. E non a caso essi sono, talora, fattori di intolleranza, arroccamenti, fanatismi, integralismi e discriminazioni.
 
In una situazione del genere, capita anche che, da parte di gruppi dirigenti ecclesiastici, si tenti la strada dell’ “accreditamento” dei “valori cristiani”, in base alla loro utilità” alla convivenza civile o alla tenuta sociale (come una forma di “religione civile”). Accettando in tal modo la riduzione del cristianesimo alla dimensione sociologica e la sua trasformazione in puro elemento identitario, quasi di autodifesa e affermazione contro l’esterno, verso tutto ciò che non è “cristiano”. Ottenendo spesso solo l’effetto di sistemare il Gesù della fede, il suo messaggio e i simboli cristiani in una specie di pantheoninduista!
 
E allora si spiega anche come mai questi atteggiamenti, spesso guidati dalla paura, vadano a braccetto con altre paure, emerse nel contesto della globalizzazione e degli epocali cambiamenti di equilibri economici, politici e culturali in corso. Paure che, anche in Italia, possiamo vedere rappresentate, in forme aggressive, populistiche, tribali e spesso cripto-razziste, in nuove e ambigue forze politiche, che si sono alimentate proprio con quelle paure. Sono proprio tali forze politiche e culturali che – pur essendo ispirate da sentimenti, sostanzialmente, anticristiani - esaltano la dimensione sociologica del cristianesimo e della chiesa, oscurando ovviamente quella più specificamente “cristiana” ed evangelica. Tuttavia, capita anche che l’esigenza di quelle forze di usare la fede cristiana come elemento di “aggressione” o di “autodifesa”culturale, si sposi (è già avvenuto altre volte nella storia, con effetti deleteri!) con il desiderio di alcuni ceti ecclesiastici di apparire determinanti socialmente e “utili”. Alla fine, l’attaccamento ai simboli cristiani più che a quello che essi significano, cioè un formalismo dei simboli, diventati solo simboli di identità culturali, va ad assemblarsi con il formalismo delle pratiche religiose di un certo cristianesimo, tradizionalista e integralista. Un tipo di cristianesimo, quest’ultimo, che dall’impatto con la modernità ha ricavato solo meccanismi di difesa e sentimenti di “accerchiamento”, spesso accompagnati da un progressivo, e inevitabile, svuotamento – talora inconsapevole - dei significati più profondi del messaggio cristiano.
 
Si capisce allora perché le posizioni di quelle forze politiche, a cui si è accennato sopra, si sentano coerenti con una visione di cristianesimo e di chiesa tradizionale e tradizionalista, innescando addirittura delle pressioni, delle preferenze e dei condizionamenti ecclesiali, che rischiano di modificare, anche antropologicamente, la comunità dei credenti.
 

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