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Il business che gira intorno all’edilizia di culto

Le secolarizzazione è un fenomeno talmente vasto da essere ormai ammesso persino dalle gerarchie ecclesiastiche. Se tanto ci dà tanto, dovrebbe comportare una riduzione significativa del numero delle chiese. All’estero accade in maniera diffusa, soprattutto nei paesi del Nord Europa. E accade anche in Italia. Ma nel nostro Belpaese le modalità con cui “accade” sono bizzarre. Meno insolito, anzi banale, è la conseguenza ultima di quanto accade: maggiori costi pubblici e maggiori introiti per il proprietario degli edifici. Che è anche il più grande proprietario immobiliare d’Italia.

Da anni anche nel nostro paese si assiste a un calo della partecipazione religiosa, tanto che almeno il 20% della popolazione ormai non si reca mai in chiesa, secondo una ricerca di Franco Garelli. Una diminuzione emersa anche da una ricerca commissionata dai vescovi in aree storicamente roccaforte del cattolicesimo, come la Sicilia centrale. Nonostante ciò, le istituzioni sono sempre prodighe nel concedere alla Chiesa fondi più cospicui per la costruzione di altre chiese, destinando quote degli oneri di urbanizzazione secondaria e finanziamenti ad hoc sia locali sia nazionali come documentato dalla nostra inchiesta sui costi della Chiesa. Iniziative prese di concerto con i vescovi, come l’edificazione di una cinquantina di chiese nelle periferie di Roma promossa dal sindaco Gianni Alemanno. In un paese costellato da campanili, ma che spesso manca di infrastrutture e servizi davvero utili a tutta la cittadinanza.

La Conferenza episcopale ha destinato l’anno scorso 190 milioni di euro (stessa cosa nel 2011) dell’Otto per Mille per l’edilizia di culto, di cui 125 per la costruzione di nuove chiese. Cifra non stratosferica, se paragonata ai quasi 100 milioni circa l’anno in contributi comunali per oneri di urbanizzazione secondaria. Intanto in diverse zone, complice anche il calo generale dei sacerdoti e la crescita della loro età media, le parrocchie ormai scoperte e inutilizzate — specie quelle in zone scarsamente abitate e difficili da raggiungere — vengono vendute. Anche i cambi di destinazione d’uso delle chiese gravano sulle casse pubbliche, come scriveva anche Curzio Maltese ne La questua, per una media annua di circa 150 milioni di euro.

Va chiarito che sotto la dicitura “edilizia di culto”, su cui cui piovono finanziamenti pubblici sottratti da capitoli di spesa quali l’edilizia scolastica, ricadono anche le cosiddette “pertinenze”. Cioè gli appartamenti e le abitazioni di vario tipo per religiosi (dai palazzi vescovili alle canoniche, tutti esentati dall’Imu), gli oratori con relativi bar, ma anche campi sportivi e sale ricreative sovente affittate a chi pratica sport, e persino per riunioni di condominio. Si genera così una spirale sussidiarista, per cui lo Stato e gli enti locali svendono o lasciano andare in malora (per poi svendere) il proprio patrimonio immobiliare, mentre i finanziamenti pubblici al patrimonio immobiliare della Chiesa non accennano a fermarsi. I Comuni, per garantire i servizi, sono quindi di fatto costretti a pagare affitti proprio alla Chiesa che fornisce strutture e che poi detta le condizioni, arrivando a sfrattare scuole pubbliche. Come accaduto a Castiglione dei Pepoli, in provincia di Bologna, dove la curia che prima affittava al comune i locali per la scuola media locale a 11mila euro l’anno ha raddoppiato l’affitto, nonostante i prezzi di mercato fossero più bassi. Il Comune aveva proposto di pagarne 13mila, ma la diocesi non ha accettato il compromesso e ha intimato lo sfratto, che sarà esecutivo da luglio.

Come scrive Il Corriere della Sera, il fenomeno delle chiese sconsacrate adibite ad altri usi va lentamente affermandosi anche in Italia, sebbene non ai livelli di altri paesi occidentali. Secondo la Cei, circa 65-70mila chiese sono di proprietà ecclesiastica. Il fotografo Andrea Di Martino, che per la sua mostra “La messa è finita” ha girato l’Italia per fotografare queste ex-chiese ora destinate ad altri usi, cita stime che parlano di almeno 700 chiese sconsacrate.

Sono i singoli vescovi a decidere quando dismetterle, mentre il Vaticano interviene solo nei rari casi in cui il valore dell’immobile supera il milione di euro. Per edifici di valore storico, culturale o artistico si affaccia lo Stato tramite la Sovrintendenza ai beni architettonici, con diritto di prelazione nel caso la diocesi optasse per la vendita. A volte la chiesa non viene sconsacrata e viene concessa occasionalmente a terzi per attività quali concerti o esposizioni, tramite contributo alla diocesi. Altre volte, come accade un po’ in tutta Italia, diventa un centro culturale o un locale.

Secondo il sociologo Marco Marzano, autore di Quel che resta dei cattolici, il fenomeno delle chiese sconsacrate non sarebbe comunque in aumento. “Anche con un crollo verticale dei praticanti, le parrocchie non chiudono, perché le gerarchie ecclesiastiche non vogliono evidenziarlo”, spiega, “in Italia anche i non credenti difendono le chiese, perché fanno parte del patrimonio artistico”. Ma non certo tutte.

L’edilizia di culto ha dunque costi pubblici prima, durante e dopo. In poche parole: sempre. Già è grave che la pratica religiosa sia finanziata dall’amministrazione pubblica. È però ancora più grave che i contribuenti finanzino anche le fantasiose speculazioni immobiliari della Chiesa cattolica. La sudditanza psicologica dei politici italiani nei confronti di vescovi e cardinali, giustificata da un’aprioristica predisposizione favorevole al fenomeno religioso, non è ormai soltanto una questione di laicità. È ormai anche, e talvolta soprattutto, una questione di buona e onesta amministrazione.

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