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Il Risorgimento screditato

Quest’anno, che avrebbe dovuto preparare le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ha prodotto il risorgere di antiche polemiche storiografiche e politiche, rinvigorite da nuove pubblicazioni (Terroni di Pino Aprile) o dal riemergere di pubblicazioni già edite (Risorgimento da riscrivere di Angela Pellicciari o Controstoria dell’unità d’Italia di Gigi Di Fiore).

Molte delle pubblicazioni, rivolte a screditare o correggere la storia risorgimentale, si rifanno in genere alla vulgata clerico-marxista, che ha sempre considerato il Risogimento come invasione del Sud da parte della monarchia sabauda, che lo colonizzò e depredò.

<<Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti>>  è una ben nota affermazione di Antonio Gramsci.

Così come una certa storiografia cattolica o addirittura neo-guelfa sostiene che l’unità nazionale fu opera della massoneria, che ebbe grande influenza nel determinare la politica del Regno di Sardegna prima del 1861 e del Regno d’Italia dopo.

Si può insomma leggere di tutto: apologetiche rivalutazioni del Regno delle Due Sicilie, trattare Cavour e Garibaldi come criminali di guerra ed altre amenità.

Noi credevamo che il Risorgimento fosse stato fatto contro l’Austria, contro lo Stato pontificio, contro il Regno delle Due Sicilie, uno degli Stati peggio governati da un’aristocrazia retriva, paternalista e bigotta.

Ed invece apprendiamo che il Risorgimento fu fatto contro i contadini, contro il popolo e, allargando la polemica e il revisionismo storico, contro tutti: lombardi, veneti, toscani e soprattutto meridionali.

Ma tutte queste scoperte, che in vero sono vecchie, generano un sentimento di fastidio per questo travisamento della storia nazionale, perché si tratta di avvenimenti che hanno alle spalle un secolo e più di studi sulla conquista regia, sul peso marginale delle classi popolari, sulla natura borghese dell’ordine sociale, sulla scelta del centralismo anziché del federalismo ed altro nel processo tormentato di unificazione del Paese. E proprio di questi argomenti s’interessarono, con varietà di approfondimenti e di giudizi, studiosi come Cattaneo e Nitti, Oriani e Gobetti, Rosselli e Salvemini, Chabod e Romeo.

Sul brigantaggio si sono scritti un’infinità di libri. Esso era già un grave problema prima del 1861, un fenomeno endemico del Mezzogiorno. Il governo borbonico lo combattè duramente, ne controllò l’espansione, ma non riuscì ad eliminarlo, come ricordano le cronache giudiziarie fino al 1860. Su questo argomento scrissero Giustino Fortunato, Adolfo Omodeo ed altri prima della seconda guerra mondiale; e dopo la guerra un libro di Franco Molfese (Storia del brigantaggio dopo l’Unità) ne fissò alcuni tratti fondamentali.

La storia dello Stato unitario nei suoi primi quarant’anni è, come ogni storia, complessa e contraddittoria insieme. Difficile quindi da analizzare e raccontare in tutte le sue implicazioni politiche, economiche e sociali.

Nel 1860 si poteva già scorgere il profilo di due Italie diversamente prospere, il Piemonte, la Lombardia e la Liguria da una parte, il Mezzogiorno e le isole dall’altra; ma le differenze di ricchezza erano allora assai meno pronunciate di oggi, mentre contrasti più recisi e preoccupanti emergevano dal raffronto delle relative strutture sociali: quella del Settentrione più evoluta ed aperta ad assecondare ogni sforzo d’inserimento del paese in un movimento di progresso moderno, quella del Mezzogiorno ancora come pietrificata in un passato feudale.

Di questa realtà meridionale divenne interprete disinteressato Giustino Fortunato, il quale, nato a Rionero in Vulture da una famiglia di proprietari terrieri, fu oltre che il maggior studioso, in certo senso lo scopritore della questione meridionale, da lui per la prima volta colta nella complessità dei suoi fattori geografici e storici, politici e morali.

Al Fortunato sembrava inintelligibile la storia del Mezzogiorno d’Italia, con le sue particolari vicende e le sue molte disgrazie, se studiata prescindendo dalla geografia. Per lo studioso lucano la geografia insegnava anzitutto che, a dispetto di quel che si era creduto per secoli e molti continuano ancora a credere, il Mezzogiorno era una regione in complesso naturalmente infelice, per la sua stessa configurazione longitudinale, piena di asprezze e terre aride e malariche, per le troppe montagne e valli abbandonate, per un clima con piogge invernali e siccità estive che mantenevano arretrata l’agricoltura.

La classe dirigente sabauda si trovò di fronte una serie di problemi, riguardanti il Sud, realtà con alti livelli di analfabetismo ed arretratezza sociale e culturale. Difficile era contemperare la diversità dei regimi commerciali dei diversi stati preunitari, alcuni dei quali avevano adottato alti dazi doganali per alcune produzioni. Per cui quando il governo unitario scelse di adottare una tariffa doganale più bassa, sostanzialmente liberistica, ne risentirono le produzioni siderurgica,meccanica e tessile meridionali, cresciute al riparo di un’alta tariffa d’importazione, ma alla lunga finì per avere anche conseguenze positive per il Sud. Ed il regime instaurato di libero scambio favorì le produzioni agricole meridionali, rivolte al mercato internazionale, come la vite e gli agrumi.

E dopo gli studi di R. Romeo su Risorgimento e Capitalismo pochi hanno potuto dubitare che nel primo ventennio di vita unitaria il reddito contadino meridionale crebbe, in virtù di quel regime doganale liberistico, ed ebbe inizio una generale ripresa della vita economica meridionale, con la formazione di un alto numero di piccoli e medi proprietari contadini, di contro all’antica e retriva grande proprietà terriera. Sostanziale progresso a cui certamente contribuì la costruzione di quelle infrastrutture indispensabili all’economia, come le strade ferrate.

Nel secondo ventennio della vita unitaria si tornò ad un regime doganale protezionistico, causa la grande depressione dell’economia europea, coinvolta nella crisi granaria internazionale.

Il progresso scientifico e tecnologico produsse la crisi granaria internazionale. Negli USA erano coltivate a grano grandi distese con macchine agricole, fertilizzanti, bassi costi e prodotto di ottima qualità rispetto a quello europeo. Inoltre i bastimenti a vapore accorciarono i tempi di percorrenza tra le due sponde dell’Atlantico, favorendo l’esportazione del grano americano verso l’Europa. Entra in crisi la produzione cerealicola europea e soprattutto quella meridionale italiana, praticata con sistemi antiquati. Di qui la necessità di una tariffa doganale protezionistica, adottata da Crispi, per salvaguardare l’economia italiana nel settore alimentare, tessile e siderurgico.

Certamente questa politica protezionistica danneggiò le aree coltivate a vite, perché la Francia,colpita da alti dazi sul tessile che esportava in Italia, ridusse l’importazione dei mosti italiani, ma evitò il tracollo economico all’altro Sud, quello maggioritario delle coltivazioni estensive a grano.

E nei decenni successivi uomini del Sud, parlamentari, intellettuali, economisti che si chiamavano appunto Fortunato, De Viti De Marco, Nitti, Salvemini, Croce, dedicarono la propria attività politica, morale, civile all’emancipazione del Sud appellandosi alle cause storiche ed alle responsabilità delle classi meridionali, senza indulgere mai ad alcun sentimento di sterile vittimismo.

E mi piace concludere con la replica giornalistica di Aldo Cazzullo proprio alle osservazioni di Pino Aprile e Gigi Di Fiore al suo libro Viva l’Italia. 

Scrive Cazzullo: "Ho intitolato il mio libro Viva l’Italia! proprio perché considero l’Italia una cosa seria. E mi rifiuto, 150 anni dopo l’unità, di ragionare ancora in termini di “noi” e “loro”, di settentrionali contro meridionali. Si potrebbe ricordare che anche nella guerra del brigantaggio c’era una parte giusta – gli eserciti risorgimentali non portarono solo l’unificazione della patria ma anche la fine dell’Antico Regime, del feudalesimo, del potere assoluto del re,dei ghetti, del foro ecclesiastico – e una parte sbagliata: briganti, clero nostalgico del potere temporale, ruderi sopravvissuti alla tirannia borbonica, crollata come cartapesta davanti a un pugno di garibaldini. Fu una guerra crudele, con pagine orribili. E’ giusto raccontarle. Ma addossare nel 2010 i ritardi del Sud, di una terra magnifica dall’immenso potenziale turistico e culturale per nulla valorizzato, alla “conquista sabauda” può funzionare come artificio consolatorio, ma è francamente ridicolo. Finiremo col sentirci spiegare che Pompei va a pezzi per colpa dei bersaglieri".

Commenti all'articolo

  • Di geronimo54 (---.---.---.8) 12 febbraio 2011 08:33
    geronimo54

    Caro Antonio, Pompei non va certo in pezzi per colpa dei bersaglieri ma, mentre i Borboni ne avevano iniziato e finanziato gli scavi ed il recupero (di tasca loro), il governo italiano l’ha abbandonata all’incuria e, senza voler aprire una polemica politica, devo ricordare che il governatore del Veneto ha recentemente definito una domus pompeiana "...quattro sassi".
    Riconosco del vero negli scritti degli autori che citi, ma non si può dimenticare che c’è del vero anche in quello che scrivono altri autori come Pino Aprile che, non avrà lo spessore ed il carisma di Croce o di Nitti, ma cita pur sempre dati e fatti precisi.
    Non è che il Regno delle Due Sicilie fosse il paradiso in terra, ma è pur vero che nel 1860 i 4/5 dell’oro circolante in Italia erano lì e la convertibilità della moneta borbonica era piena perché battuta in oro o argento. Negli stessi anni il Regno di Sardegna era sull’orlo della bancarotta. "Prima del 1860, al sud era più grande ricchezza che in quasi tutte le regioni del nord" (F.S. Nitti).
    Il Regno delle Due Sicilie aveva i cantieri navali più importanti del Mediterraneo e la sua flotta mercantile era seconda, per tonnellaggio, solo a quella inglese. Fino al 1860, se c’era un ritardo tecnologico era nel Regno di Sardegna, perché al sud veniva inaugurata la prima ferrovia italiana e lo stabilimento siderurgico di Mongiana (sulle Serre calabresi) riceveva riconoscimenti e premi internazionali per la qualità della sua produzione. A San Leucio (vicino Caserta) c’era uno stabilimento tessile che non aveva eguali in Italia e che venne smantellato dagli italiani all’indomani dell’unificazione; stessa sorte toccò allo stabilimento di Mongiana e ad un identico destino vennero condannate altre attività (come la cantieristica navale e la meccanica di precisione) per il totale conferimento al nord delle commesse da parte dei nuovi governanti.
    Per quanto riguarda l’agricoltura c’è da osservare che al sud non c’era solo produzione cerealicola, ma c’era anche un’agricoltura specializzata i cui prodotti venivano per la maggior parte esportati, ma non al nord che non poteva permetterseli e che, seppur favorita da politiche protezionistiche, portava ricchezza a quelle terre. Tutto finito dopo l’unità d’Italia. E riguardo alla realizzazione di infrastrutture economiche per il mezzogiorno, stenderei un velo pietoso, pensando che , ancora oggi, Matera è l’unico capoluogo di provincia non collegato alla rete ferroviaria (se qualcuno a Matera vi da appuntamento davanti alla stazione, sappiate che vi sta prendendo in giro).
    E l’unificazione non avvenne con plebiscito popolare, ma venne imposta con le baionette. Il fenomeno del brigantaggio meridionale, soprattutto le sue origini, è estremamente complesso, ma prima (dell’unificazione) c’erano solo i briganti; il brigantaggio è venuto dopo. E, in ogni caso, che c’entravano le popolazioni civili se si prende per buona la tesi che la popolazione fosse dalla parte dei "liberatori"? Ci sono stati interi paesi messi a ferro e fuoco nel meridione: stupri, saccheggi, fucilazioni in massa, profughi. E non furono cose da poco se Garibaldi stesso ebbe a scrivere alcuni anni dopo "gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio".
    In una lettera a Pasquale Villari, Giustino Fortunato (convinto unitarista) si lascia andare ad uno sfogo riguardo all’unificazione d’Italia "... E’ stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’Unità ci ha perduti".

  • Di antonio251039 (---.---.---.150) 12 febbraio 2011 12:19
    antonio cianci 251039

    Caro Geronimo, ti ringrazio per il commento civile, argomentato che hai fatto al mio articolo.
    Voglio solo precisare qualcosa: che la differenza tra Aprile ed altri aspri critici del Risorgimento e gli storici più equilibrati di ieri e di oggi è di metodo.
    Non si fa storia se si pretende di narrare come avrebbe dovuto essere lo svolgimento dei fatti e non come effettivamente avvennero. Le cose andarono complessivamente come anche tu dici, ma lo sguardo dello storico non prende isolatamente i fatti, traendone spesso delle conseguenze errate, ma li comprende in un contesto più ampio.
    Infine voler considerare ancora Risorgimento anche la storia del Novecento dal Fascismo ai giorni nostri non mi sembra storicamente adeguato; e tutti i guasti che hanno penalizzato e rischiano di affossare il paese sono responsabilità delle classi politiche di questi ultimi decenni e non degli uomini che fecero l’unità, utilizzando anche l’eredità delle realizzazioni migliori del Regno delle due Sicilie. Ti saluto cordialmente.

  • Di (---.---.---.245) 16 febbraio 2011 16:25

    Forse Pompei va in pezzi per colpa dei Borbone?
    Sig.Antonio, questo del risorgimento per il sud è un argomento davvero serio e sempre più sentito, cercare di affibbiare qualche categoria politica (marxiste o clericale) magari stantia alle evidenze che sempre più prepotentemente stanno minando le basi etiche e morali del risorgimento mi sembra quantomeno riduttivo. Riguardo al prima e dopo unità basterebbe una semplice analisi sulle condizioni del sud, un territorio dove praticamente non c’era emigrazione, a differenza dei territori del nord, divenne un bacino di manodopera per ogni angolo del mondo da cui partirono milioni e milioni di persone, e ancora oggi partono a centinaia di migliaia ogni anno, segno evidente, forse unico al mondo, di quanto sia attuale e di quanto gli effetti dell’unità d’italia siano ancora profondi nel sud; mi dispiace che vengano trattati così tanti argomenti in maniera così veloce e, se mi permette superficiale, a partire dalle analisi sugli stessi intellettuali da lei citati che ben presto iniziarono a fustigare non solo le classi meridionali, ma anche il modo in cui si stava facendo l’italia che stava massacrando il sud socialmente ed economicamente, Fortunato ad esempio (vittimista?) affermava in una lettera a Villari - L’unità d’Italia ... è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali - e Salvemini ad esempio scriveva - Se dall’unità d’Italia il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata … è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone - lo stesso Nitti - Lo sviluppo del Settentrione è dovuto a cause storiche e alla sua posizione geografica. Per circa mezzo secolo è stato un drenaggio continuo, un trasporto di ricchezza dal Sud al Nord. Tale ricchezza ha permesso la formazione di grandi capitali che han reso possibile la educazione e la trasformazione industriale del Settentrione ... Nel 1887 è venuta la politica doganale e il Mezzogiorno, da colonia di contribuzione si è trasformato in colonia di consumo in favore dei produttori settentrionali. Al Sud non rimaneva che un solo privilegio: quello di pagare le maggiori imposte. Il governo prende le imposte e impone la corruzione politica -
    Basterebbero già queste affermazioni di profondi unitaristi per dire che i primi anni dell’unità d’italia non furono tutti rose e fiori per il sud a cui fu riservato un trattamento per così dire “diverso”; ulteriori analisi andrebbero fatte, queste si riduttive dal suo punto di vista e da quanti cercano di sminuire il fenomeno brigantaggio postunitario adducendo il fatto che già prima erano presenti i briganti nel sud, cosa vera, ma erano fenomeni ben distinti per cause ed effetti; infatti il brigantaggio preunitario, del 1600-1700 è definito dagli storici, ovviamente non quelli pro-risorgimento, brigantaggio “sociale”, ed era presente non solo nel sud italia ma in quasi tutta europa, mentre il brigantaggio post-unitario aveva una causa e nemici ben precisi, i piemontesi, ed era una guerra a tutti gli effetti, esclusi alcuni casi di anarchismo e delinquenza tout court, partigiana; molti briganti erano ex-soldati, ufficiali ma anche avvocati, artigiani, contadini etc.

    Riguardo alla politica economica già nel periodo pre-unitario il sud aveva prodotti di eccellenza e colture intensive che esportava all’estero, Francia soprattutto ma anche Inghilterra o America, con la svendita dei beni ecclesiastici, l’innalzamento feroce delle tasse, il primo liberismo che fece arrivare prodotti dall’estero, e dal nord italia, la conseguente emigrazione che vide partire soprattutto piccoli proprietari che nella partenza vendevano il proprio piccolo appezzamento, altro che sconfitto il latifondo, lo aumentarono a dismisura e questo aspetto sarebbe stato affrontato solo nel 2° dopoguerra e in pratica, per 70 anni molte terre andarono a finire nelle mani di pochi grandi proprietari; poi venne, come ben dice, il protezionismo ma non la dice tutta sulle cause in quanto motivo primo di questa politica economica era la necessità di porre le basi e salvaguardare lo sviluppo del sistema industriale settentrionale allora nascente e proteggerlo dalla concorrenza del sistema industriale europeo, ben più consolidato. Bisognerebbe anche guardare oltre ai meccanismi di un sistema economico sano perché molte delle industrie meridionali, le ricordo che il numero degli occupati nelle industrie al sud era più elevato di quelle al nord, furono letteralmente distrutte dallo stato; la invito a documentarsi sulla storia di Pietrarsa e sull’Ansaldo per vedere il trattamento riservato al mezzogiorno; nel sud c’erano due delle tre industrie ferroviarie più grandi eppure tutte  le commesse statali per la costruzione del sistema ferroviario nazionale andarono al nord con appalti pilotati da Cavour e dallo stato ad amici e parenti. Si ponevano insomma le basi per l’Italia di oggi.

    Le ricordo che il primo piano di intervento industriale nel sud è stato inaugurato nel 1904, su forte volontà di Nitti, dopo dunque quasi 50 anni dall’unità.

    Le risparmio una valutazione su cose evidenti e imbarazzanti, su cui non ci sarebbe nemmeno margine di discussione, tipo il motivo per cui il 1° re d’italia è un 2°, sui diritti di rappresaglia, stile SS, adottati dalle leggi Pica, il perchè ancora oggi, dopo 150 anni, gli atti dell’esercito sono ancora secretati, fino al ruolo della camorra e mafia (che massoni fecero l’italia ormai è risaputo) che poi ebbero uno sviluppo esponenziale fino all’italia di oggi.

    A differenza di Cazzullo che vorrebbe gridare Viva l’Italia e farla gridare incasinando le carte sul tavolo, non curandosi della volontà sempre più marcata di conoscere la storia della propria terra e dunque la stessa storia d’italia da parte di molti meridionali, mi aspetterei per i 150 anni in quanto cittadino italiano semplicemente di conoscere la verità dei fatti, altrimenti è un altro mattone sul castello di falsità propinatoci fino ad oggi a scuola e nelle ricorrenze ufficiali. Poteva essere una grande occasione, la ricorrenza, per recuperare una memoria condivisa, nel bene o nel male, e cercare un nuovo inizio, un patto sociale tra cittadini rinnovato sulla base della conoscenza e della consapevolezza, invece si aggiunge un altro artificio e vuota retorica, buona solo per quando l’italia, e forse nemmeno più in queste occasioni, gioca a pallone.

    Mi scusi per la lunghezza e gli errori ma è un tema a cui tengo molto, da cittadino e non da guastatore della festa.

  • Di (---.---.---.245) 16 febbraio 2011 16:30

    Non riesco a pubblicare il commento, mi dispace ma è la prima volta che scrivo su questo spazio

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