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Il "Noah" di Aronofsky: tra kolossal, fantasy e dramma esistenziale

È uscito il 10 aprile nelle sale italiane "Noah", il colossal biblico scritto, diretto e prodotto da Darren Aronofsky, che assieme allo sceneggiatore Ari Handel (entrambi hanno ricevuto un'educazione ebraica) ha voluto tradurre in potenti immagini, rese realistiche dagli effetti speciali, uno dei racconti biblici più enigmatici e affascinanti. Il film di più di 2 ore, costato circa 125 milioni di dollari si avvale di un cast stellare: Russel Crowe, Jennifer Connelly, Logan Lerman, Douglas Booth, Emma Watson, Ray Winstone, Anthony Hopkins, Kevin Durand, Marton Csokas, Dakota Goyo.

MA LA GENESI NON È UN FANTASY - «Il pubblico si aspetta – ha dichiarato Aronofsky - di ritrovare tutti i grandi momenti che hanno caratterizzato la storia di Noè: l'arca, gli animali, il primo arcobaleno, la colomba. Ma mi auguro che qui vengano colti in modo nuovo e sorprendente. Ciò che abbiamo fatto è stato iniziare ad attenerci al testo effettivo della Genesi, per poi spaziare in un dramma familiare». L’arca è stata ricostruita artigianalmente seguendo le misure indicate dalla Bibbia. In effetti un tentativo di rielaborare lo scarno, ma assai profondo racconto biblico c’è. Soprattutto di dare spessore psicologico al personaggio del patriarca (interpretato da un Russel Crowe in grande forma), poco tratteggiato nel testo biblico, sovrapponendo alla figura di Noè quella di Abramo. Ma poi il regista si fa prendere la mano dal racconto epico della lotta titanica del patriarca e degli angeli caduti, i Nefilim, suoi alleati, contro le armate di Tubal-Cain (Ray Winstone), il malvagio re discendente da Caino che gli ha assassinato il padre Lamech. Con tanto di lotta finale tra i due. E la storia scivola nel catastrofismo fantasy, mal conciliandosi col proposito di fedeltà al testo della Scrittura, assai asciutto e poco propenso a voli di fantasia.

Alcune scene risultano addirittura inverosimili. Anacronistico e problematico sul versante ecumenico è l’utilizzo dei filatterio (tefillin) che Noè come un pio istraelita si lega al braccio sinistro, un’usanza prescritta dalla legge mosaica che viene retrodatata al tempo del diluvio. Si sfiora il ridicolo quando la moglie di Noè, Naamah (Jennifer Connelly), dotata di sottili arti magiche e mediche, pratica un test di gravidanza a Ila (Emma Watson), la giovane salvata da bambina e adottata dalla famiglia del patriarca. O quando si vede Naamah, incensare l’arca con una sostanza fumigante soporifera in modo da addormentare gli animali e impedire loro di divorarsi. E non si capisce come mai una dose capace di anestetizzare bisonti e elefanti, non faccia schiattare gli umani. Certo nessuno chiede precisione storica, Il racconto biblico non è un testo storico, ma simbolico-sapienziale. Il regista, inoltre, ha il diritto di muoversi con libertà di immaginazione, ma ogni racconto deve avere una sua verosimiglianza interna.

IL DILEMMA DI NOÈ - Più riuscita, anche se poi mal si concilia con le scene titaniche, la caratterizzazione psicologica del personaggio di Noè e del suo dramma esistenziale: la solitudine di fronte alla tremenda scelta che il Creatore gli ha affidato. Un angoscioso isolamento acuito dall’ambiguità degli oscuri messaggi che vengono dal cielo e dai silenzi di Dio. Il Noè di Aronofsky compie un percorso di formazione che lo porterà a spogliarsi del fanatismo con cui interpreta la sua missione divina, scoprendo in Dio l’amore e non solo la giustizia. Come Abramo è posto di fronte al dilemma se distruggere la sua discendenza - le due bambine gemelle nate da Ila - per obbedire a un Dio spietato, o ascoltare la voce del suo cuore. Noè crede che la sua missione sia salvare il creato ma non gli uomini, convinto che solo gli animali siano innocenti. Per questo Noè subisce l’incomprensione dei suoi figli, soprattutto di Cam (Logan Lerman), un ragazzotto nel pieno di una tempesta emotiva ed ormonale (in realtà nella Bibbia un centenario già sposato) che il padre ha condannato ad una vita senza il conforto di una donna. Alla fine vincerà la voce del cuore, ma il vecchio patriarca sentirà come una disobbedienza imperdonabile non aver ucciso le sue nipoti. E affogherà nel vino le sue angosce e i suoi rimorsi, prima di lasciarsi riconciliare con la moglie e i figli. Ma perderà per sempre Cam.

Aronofsky sovrappone alla figura di Noè quella di Abramo. In effetti le due figure sono assai diverse nel testo biblico. «Noè camminava con Dio», si dice nella Torah. La tradizione rabbinica dei midrash mette questo passo a confronto con quello parallelo in cui si dice che Abramo “camminava davanti a Dio”. Dio può essere paragonato a un re, spiega la tradizione ebraica - che ha due figli, uno cresciuto e l’altro bambino. Al bambino dice: cammina con me, ma all’adulto: cammina davanti a me. In effetti la figura di Noè nella Bibbia sembra subire le decisioni di Dio, obbedisce senza protestare, non interviene mai come partner nel dialogo con Dio, non alza mai la sua voce, a differenza di Abramo, che impegnerà Dio in una in una strenua trattativa a proposito della distruzione di Sodoma e Gomorra. È chiaro che quando gli viene comandato di uccidere Isacco, obbedisce, ma con il cuore a pezzi. Nè tantomeno Noè ha la tempra agonistica di Giacobbe che ardisce lottare con Dio. In un midrash si racconta che Noè si sia lamentato dopo la fine del diluvio con Dio della distruzione totale dell’umanità. E Dio gli risponde: «Perché non l’hai detto prima?». Quasi a dire: “forse ti avrei ascoltato”.

Nel film il dramma di interiore di Abramo si sdoppia nel duro scontro che Noè ha con la moglie che cerca di farlo recedere dal suo proposito autodistruttivo. La Pesiqta abbati, una collezione di midrash risalente circa all’845 d.C., fa dire a Dio dopo il diluvio: «quando vinco perdo… ho vinto la generazione del diluvio, ma non sono io che ho perso avendo distrutto il mio mondo?». Da allora, secondo il testo ebraico, Dio cominciò a temere la vittoria, preferendole a volte la sconfitta. Probabilmente anche a questa tradizione si è voluto richiamare il regista.

LA BANALITÀ DEL MALE - L’assalto all’arca da parte dell’esercito degli uomini è – si diceva – la parte più spettacolare ma narrativamente la più debole. Si vede all’opera un patriarca guerriero, in contraddizione col pacifista vegetariano presentato prima. La Bibbia non racconta le reazioni degli uomini alla vista della costruzione dell’arca. Né tantomeno si parla di un tentativo di impadronirsi della preziosa imbarcazione da parte degli uomini incattiviti. La tradizione cristiana, riprendendo uno spunto della Lettera agli Ebrei, sottolinea la fede di Noè che «per essa fede condannò il mondo e fu fatto erede della giustizia che si ha mediante la fede» (Ebrei 11,7). Agostino commenta nel suo Discorso 114/B spiegando che «i contemporanei di Noè furono ottusi di mente e, se perirono, fu per l'accecamento demenziale che li portò a disprezzare le cose che vedevano». «Se avessero ragionato in questa maniera e avessero cambiato vita, - aggiunge il Santo di Ippona - se convertendosi dall'empietà a Dio avessero espiato i loro delitti, con questo gemere dinanzi alla sua misericordia certo avrebbero evitato la rovina».

La stessa incredulità e derisione degli uomini si può ritrovare anche in molti testi islamici. Secondo queste tradizioni, dunque, l’annientamento del genere umano sarebbe stato dovuto ad una drammatica cecità spirituale piuttosto che a un Dio vendicativo. Nessuna lotta epica tra bene e male - come si racconta nel film – in cui almeno si ha la consapevolezza della gravità della situazione, ma una presuntuosa sottovalutazione del pericolo. O forse, come sembra suggerire il silenzio della Scrittura su questo punto, la chiave di lettura è un’altra. Né il rifiuto di Dio né la derisione furono la causa della fine del genere umano. Solo una banale, infinita indifferenza, un ottundimento terribile dell’anima. Gli uomini semplicemente non si accorsero nemmeno di andare incontro al disastro, prigionieri come erano del grigio vuoto della banalità del male.

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