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Il Fato di ciascun è dentro al mio, come nell’occhio lo sguardo (Clemente Rebora)

Clemente Rebora era figlio del garibaldino Enrico, che partecipò alla battaglia di Mentana, e anch’egli, come il padre, d’ispirazione risorgimantale e mazziniana.

Partecipò alla Grande Guerra, precisamente a Podgora, nel 1915.

Un evento che gli procurò un trauma cranico a seguito di un colpo d’artiglieria nemica.

La sua testimonianza letteraria e poetica è caratterizzata da una grande passione per l’umanesimo e in una fase,dal 1928, anche dall’abbraccio della fede religiosa, fino a diventare sacerdote cattolico nel 1936.

La guerra -“Di superbia ubriaca” - è il male che affligge l’umanità.

La sua vita letteraria trova corrispondenza con l’evoluzione (o forse l’involuzione) dell’Italia, che passò dai puri valori laici ante Prima guerra mondiale, alla creazione e affermazione, nella politica moderata, dei valori dogmatici, grazie il Partito Popolare Italiano.

Dai suoi appunti, sembrerebbe essere stato anche simpatizzante del primo fascismo, come missione italiana verso l’affratellamento universale e giudicò i Patti Lateranensi del 1929, come “opera della Provvidenza”.

Un lungo silenzio letterario lo caratterizzò per tutto il ventennio e la seconda guerra mondiale;

solo pochi pensieri sull’orrore bellico: ”... costì sia turbato il silenzio di Dio dal rumore minaccioso della povera umanità che impazza senza di Lui”(*)

La poesia successiva alla conversione è legata al suo percorso religioso:

Quanto all’uso che faccio ora io della poesia, mi pare che quando la vita interiore sente il bisogno di traboccare, riempie d’acqua anche torrentelli che di solito non hanno acqua; e a me riesce di gioia, a benedire l’Ognibene”(**)

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Nell’ultima fase di vita, da persona sofferente, forse si intravede un ritorno in origine:

«Terribile tornare a questo mondo

quando già tutte le fibre

erano tese a transitare!

E il corpo mi rifiuta ogni servizio,

e l’anima non trova più suo inizio.

Ogni voler divino è sforzo nero.

Tutto va senza pensiero:

l’abisso invoca l’abisso».(***)

L’ideale mazziniano abbracciato da suo padre e seguito anche da Clemente fino alla mezza età, sintetizzato dal motto “Dio e Popolo”, che potè concretizzarsi al di qua e al di là dell’Oceano: da Roma (Repubblica del 1849) a Gettysburg (guerra civile americana, con i mazziniani al fianco di Lincoln), in Italia non ebbe seguito con l’unificazione nazionale, in quanto seppur Stato risorgimentale e laico, però in forma di monarchica con elementi elitari e di dubbia capacità strategica.

Tutte le tragedie che l’Italia ha subito sono rivelatrici agli occhi dei posteri, degli errori commessi, infatti citando Aristotele:“L’accidente rivela la sostanza.”; e lo straordinario percorso di Rebora, “vede” e testimonia la tragedia subita dalla Nazione.

Il bisogno di celebrare Dio e al contempo di dedicarsi alla cura del popolo, caratterizzò il pensiero di Mazzini.

La salda architettura del suo pensiero e del proselitismo, operato anche ad opera dei suoi seguaci, si possono individuare in uno quei manoscritti di propaganda rivoluzionaria della Repubblica romana: il Catechismo sulla Costituente dello Stato Romano del 5 Febbraio 1849, rivolto al popolo romano, che già metteva in guardia su quali fossero gli abbagli che il cittadino era soggetto a subire, in un regime di libertà.

Poichè, difatti, anche godendo della piena libertà, le delusioni e le tragedie sono inevitabili, se si abbandona la retta via.

Dal Catechismo sopra menzionato:

Voi adunque date la facoltà ai vostri Rappresentanti di poter fare un nuovo Governo, se lo crederanno utile per tutto il Popolo, o di far restare quello del Papa richiamandolo a Roma con nuovi patti.

Questo è l’oggetto principale della Costituente, ma nella medesima saranno esposti tutti i vostri interessi, ed i vostri bisogni, avendo così nel tempo stesso due vantaggi, il primo cioè di avere un governo uguale per tutti, e che sente il bisogno di fare del bene al Popolo; e l’altro è quello di ottenere dal Governo stesso il maggior vostro bene.

Perciò vi ripetiamo di dover stare attenti nel nominare questi rappresentanti, perchè se per consiglio dei birbanti nominerete qualcuno colla maschera di uomo onesto e liberale, voi invece di avere il bene, avrete il più gran male che si possa immaginare.”

 

Note:

 

Titolo da “Frammenti lirici”, 1913

(*)  Dalla “Lettera alla sorella Marcella”, 17 Agosto 1940

(**) Dalla "Lettera a Giovanni Salzotti", 24 Novembre 1953

(***) Da “Canti d’infermità” - 19 Aprile 1956

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