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I luoghi di memoria tra speranza e resistenza: visita all’ex “Olimpo” di Buenos Aires

Il viaggio che abbiamo scelto di fare a novembre nel Rio de la Plata ha avuto come filo conduttore l’approfondimento del tema dell’identità e della valenza “civile” della memoria collettiva del popolo argentino e di quello uruguaiano, entrambi vittime di regimi dittatoriali nella decade degli anni ‘70. 

Articolo di Patrizia Gradito e Nicola Viceconti.

L’iniziativa rientra nell’attività del progetto “Novelas por la identidad” che da anni portiamo avanti per sensibilizzare, con lo strumento della narrativa, sul delicato concetto della verità storica a tutela della difesa dei diritti umani. Il presente articolo, dedicato al Centro Clandestino di detenzione “El Olimpo”, è il primo di quattro brevi reportage su alcuni luoghi di Memoria dei citati Paesi.

La Visita

Dal trambusto delle strade trafficate del barrio Floresta di Buenos Aires, attraversiamo l’ingresso e ci troviamo immersi in uno spazio ampio, pervasi da un improvviso silenzio ovattato. Gli occhi incontrano volti di giovani, affissi sui vetri di una palazzina sulla destra, ognuno con un nome e una data, quella del sequestro. Si moltiplicano i tanti sorrisi, espressioni spensierate e ancora ignare del proprio destino: i nostri sguardi rimbalzano come a tentare di coglierli tutti, senza una logica precisa e cadono su Josè Slavkin “Clemente” sequestrato 10/09/1977; Sergio Victor Cetrangolo sequestrato il 2/10/78; Marta Muňoz “Cuca” sequestrata il 19/07/1978 e si soffermano su Susanna Larrubia, una ragazza forse ventenne, dai capelli lunghi, sequestrata l’11 dicembre dello stesso anno. Fissiamo ammutoliti l’agghiacciante esposizione, finché la voce di Cecilia, la nostra guida, non ci riconduce alla realtà. C’incamminiamo sul lato opposto del cortile e incrociamo un cartello che indica dove siamo, un luogo di memoria: “Parque 30.000 companeros, detenitos desaparecidos”. Ricostruiti dalle testimonianze dei pochi sopravvissuti, i fatti storici ci accompagnano come pezzi di un gigantesco puzzle verso l’area interna, dove allora erano reclusi i detenuti. Ci colpisce la grossolanità dei militari che goffamente hanno tentato, più volte negli anni di insabbiare le tracce. Sotto un sottile strato di asfalto sono state rinvenuti i perimetri delle celle. L’Olimpo di oggi conserva intatta in alcune zone la geometria dell’orrore di un tempo, , le maioliche scolorite di quelli che dovevano essere i bagni, le pareti scrostate dei luoghi adibiti a sale di tortura, sulle quali sembra ancora di sentire le voci di chi sventuratamente era stato trascinato lì.

Ci troviamo dentro un fermo immagine, tutto è apparentemente congelato. Ce ne rendiamo conto osservando un vecchio frigorifero abbandonato in una stanza, forse a disposizione dei militari di allora, sul quale i resti di nastro isolante liso dal tempo tengono incollata a mala pena una striscia di un calendario parziale, da aprile a dicembre. Sono i giorni del 1978, come ha scoperto un ragazzo in visita al Centro della Memoria.

Ci portiamo verso l’uscita, una porta di metallo arrugginita e scolorita attira la nostra attenzione. Passavano da lì, quei ragazzi, incatenati e incappucciati, dentro le Ford falcon verdi. Ci guardiamo in silenzio, sempre più convinti di dover lottare affinché porte come queste non dovranno aprirsi mai più, nunca màs!

El Olimpo

Reso noto in Italia grazie al film realizzato nel 1999 da Marco Bechis, “Garage Olimpo”, questo Centro clandestino di detenzione faceva parte della divisione automobilistica della Polizia Federale. Era situato nella zona ovest della capitale argentina, precisamente nel barrio Floresta. Nonostante il Centro avesse funzionato soltanto per alcuni mesi (dall’agosto del ‘78 al febbraio del ‘79), nell’Olimpo vi transitarono al suo interno circa 700 detenuti sequestrati, quasi tutti fatti sparire negli abissi dell’oceano con i famigerati “voli della morte”. Al comando del Centro operava Guillermo Suárez Mason, comandante del I Corpo d’Armata dell’esercito argentino, soprannominato il macellaio dell’Olimpo. Il responsabile del campo era il maggiore dell'esercito Guillermo Minicucci, dal quale dipendevano anche ufficiali della polizia federale come Julio Simón (soprannominato il turco Julián) e Juan Antonio del Cerro (soprannominato Colors). All’inizio della dittatura l'edificio - originariamente costruito come stazione terminale per le linee del tram - fu espropriato dalle Forze armate per essere utilizzato come centro di detenzione. Il nome fu coniato dai militari che sulla porta di accesso del Centro apposero un cartello con su scritto “Benvenuti nell'Olimpo degli dei”. I torturatori intendevano trasmettere l'idea che, all'interno dell’Olimpo, erano loro (gli dei) a decidere il destino dei detenuti (semplici mortali).

 

 

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