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Hunger: lo sciopero della fame dei militanti palestinesi

Usano il corpo che mangia se stesso per denunciare il crimine dell’occupazione. 

Accusati del ‘terrorismo di esistere’, quasi duemila prigionieri palestinesi gridano lo strazio della propria vessazione. Tenete a mente questi nomi: Omar Abu Shlal, Bilal Dhiab, Thaer Halahle, Mohamoud Al Sissiq, Ahmad Al Haj Ali; ma la lista è lunghissima, tutti hungers che egualmente rischiano la vita. Compreso il non più giovane leader del Fplp Ahmed Saa’dat ricoverato nel reparto ospedaliero del carcere di Ramle per i malori intercorsi dopo venti giorni di digiuno. Sono gli uomini dalle pance vuote, i prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane da 69 e da oggi 70 giorni.

Rischiano di finire come Bobby Sands ricordato dall’ottimo film di Steve Rodney McQueen tenuto lontano dalle sale italiane per quattro anni (la pellicola fu premiata a Cannes nel 2008).

Lì il regista usa la fiction per rilanciare la memoria su una storia realissima accaduta nel 1981 al militante dell’Ira e ad altri suoi nove compagni deceduti per lo sciopero della fame, cui la feroce intransigenza della premier britannica Thatcher non aprì sbocchi. Una linea che in Europa ha affascinato gli uomini d’ordine che si sono nel tempo proposti alla leadership di più d’una nazione. L’attuale leader d’Israele Netanyahu non guarda certo a insegnamenti esterni quando deve fare il duro perché la nazione sionista, che si vanta di un’indiscussa democrazia, vanta anche una serie infinita di delitti di Stato contro un altro popolo e contro gli stessi cittadini arabo-israeliani.

Nessuna pellicola ha finora ricostruito soprusi e torture delle carceri d’Israele, tutto è vissuto sulla pelle dei 1600 prigionieri palestinesi, di cui i grandi media non parlano. E i toni estremi assunti dalla protesta, già con il passo compiuto nei mesi scorsi da Khader Adnan, puntano a smuovere l’attenzione di un’acquiescente Comunità Internazionale contro l’odiosa “detenzione amministrativa” una procedura con cui un giudice militare su informazioni dello Shin Bet (l’Intelligence interna di Israele) può fare arrestare individui sospettati di terrorismo. All’abuso s’unisce il possibile rinnovo della detenzione ogni sei mesi, un prolungamento che cinicamente viene comminato a pochi giorni dalla data dell’ipotetico rilascio.

Sotto accusa anche le inumane condizioni di prigioni che si chiamano Asqelan, Gilboa, Nafha, Ramon, Eshel, l’isolamento di molti leader assai noti come Saa’dat e Marwan Barghouti, i limiti imposti alle visite di familiari e avvocati. Ieri in alcune zone della Cisgiordania ci sono state manifestazioni di sostegno a questa rischiosissima lotta dei detenuti che usano i corpi come ultimo vessillo di protesta per riconquistare la dignità di uomini e di popolo. Sebbene le notizie degli ultimi giorni siano drammatiche non tramonta la speranza che altri casi possano seguire quello di Khader Adnan, rilasciato nello scorso aprile dopo 66 giorni di digiuno.

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