• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

Home page > Tempo Libero > Cinema > Hugo Cabret: la fiaba da oscar di Martin Scorsese

Hugo Cabret: la fiaba da oscar di Martin Scorsese

Tanti piccoli Big Ben. Ecco cosa siamo, parola di bambino. Orologi da aggiustare, meccanismi imperfetti per definizione. E lui, figlio di un orologiaio che se ne è andato prima del tempo, è qui per ripararci. Bella ambizione, quando non si arriva ancora al metro e mezzo. Ma d’altronde nella vita bisogna avere uno scopo, altrimenti siamo rotti davvero. O così dice lui. 

Una fiaba da Oscar firmata Martin Scorsese, tratto dal romanzo di Brian Selznick, Hugo Cabret racconta di un’umanità inceppata dalla guerra e da infanzie che non sono tali. La stazione dei treni è sorvegliata da un improbabile cacciatore di bambini, una caricatura in divisa, un uomo dal cuore indurito, un meccanismo guasto che soltanto una fioraia dolce come il miele sa rimettere a nuovo. Lui lavora in un posto brutto, pieno di orfani ladruncoli e di cani spioni che si placano solo di fronte all’amore. E in alto c’è lui, il bambino-riparatore che si occupa di nascosto del grande orologio. E che si tiene stretto il suo scopo, che poi è tutt’altra cosa rispetto al semplice riparare. Vuole capire perché è rimasto solo, e come fare per colmare il vuoto che ha dentro. Non una cosa facile, in una Parigi così rigida e troppo adulta per essere vera.

Scenografia (grazie alla premiata coppia maceratese Ferretti-Lo Schiavo), fotografia, effetti visivi, sound editing e mixing. Martin Scorsese ha arraffato buona parte degli Oscar “tecnici” a disposizione, quelli più legati a immagini e suoni. Meritati, forse. Di certo, al netto della concorrenza, non avrebbe potuto chiedere di più. Hugo Cabret è simbologia su pellicola, a partire da una trama che non si articola al massimo del suo potenziale ma che in fondo il proprio scopo lo onora benissimo. Scorsese omaggia il cinema mettendo in piazza il suo amore viscerale, e lo fa con una storia che a un certo punto sembra perdere struttura e finisce per lasciare un senso di incompiuto.

Lo stesso protagonista è poco più che un pretesto per gridare al mondo quanto sia bella la settima arte. Di lui non resta che un piccolo ripara-vecchietti in cerca di un nuovo tetto, e che con la sua visione meccanicistica delle cose finisce per fare la cosa giusta. Asa Butterfield ha gli ingranaggi ben oleati e recita già molto bene, in barba alla giovanissima età. Ma tutto si sbilancia verso il “nonno” aggiusta-giocattoli, un uomo amareggiato dalla vita che nasconde un grande segreto. I dialoghi sono troppo didascalici, e i personaggi si spogliano troppo presto e senza provocare eccitazione. Così fa anche l’intreccio, un meccanismo che, in un certo senso, s’inceppa molto prima dello scoccare delle due ore.

Non resta che un sentito atto d’amore su celluloide per la celluloide. Un automa imperfetto ma molto ben vestito.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares