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Himalaya: il sovraffolamento sull’Everest e la rivolta degli sherpa

 
Venerdì scorso alle pendici del monte Everest una valanga ha dato luogo al più grave incidente mai verificatosi nell'Himalaya. Un nutrito gruppo di sherpa ne è rimasto vittima nel "Popcorn field", un dolce pianoro poco distante dal campo I; in sedici hanno perso la vita, molti i feriti. La massa di neve e ghiaccio li ha sorpresi mentre stavano attrezzando la via in vista della stagione turistica che sta per iniziare. Per quanto possa suonar strano infatti non c'è termine migliore per definire quello che avviene da qualche anno sul tetto del mondo. Nel 2013 sono stati in 658 a raggiungere la vetta, ossia esattamente quanti erano riusciti nell'impresa nel periodo di tempo dal 1953, data della prima ascesa, al 1994.
 

La possibilità di scalare il gigante himalayano viene concretamente offerta da numerose agenzie turistiche occidentali e sono in molti a mettersi in viaggio anche senza una gran preparazione alpinistica alle spalle. Per favorire questo turismo, una gallina dalle uova d'oro per il Nepal, economicamente parlando, negli ultimi anni si sta facendo il possibile per rendere il più agevole possibile la via normale di salita, attraverso scale e corde (fino a 10km) di supporto. Operazioni di questo genere devono essere ripetute ogni anno dal momento che non potrebbero mai resistere all'inverno. La logica del profitto fa sì che, per allungare il più possibile la stagione delle ascensioni, la via venga preparata in fretta ed in periodi in cui il rischio valanghe è maggiore.

In questi giorni da parte della popolazione locale a prevalere sono il dolore e lo choc: la maggior parte degli sherpa hanno abbandonato il campo base e in occasione dei funerali delle vittime è stata espressa l'intenzione di non tornare più al lavoro, facendo così saltare la stagione ormai alle porte. La cosa più inaccettabile ai loro occhi è trovarsi a fare il lavoro di allestimento e di ripulitura delle vie (qualcuno dovrà pure riportare a valle i rifiuti e le bombole d'ossigeno vuote), rischiando la vita ogni giorno per i pericoli che possono provenire dalla montagna, ricevendo in cambio un magro compenso, economico e morale.

Nessuno meglio di chi vive in quelle regioni da secoli sa che incidenti del genere in alta montagna possono sempre capitare e che prevederli è praticamente impossibile. È evidente anche che tutto sommato venerdì le cose sarebbero potute andare molto peggio considerando che a lavorare nel versante a seimila metri d'altezza c'erano oltre 50 persone.

Quello che dà loro particolarmente fastidio è sapere che ogni turista occidentale deve spendere attorno ai 100mila dollari per levarsi la soddisfazione di scalare l'Everest, mentre uno sherpa in una intera stagione di lavoro può arrivare a guadagnarne, al massimo, seimila. Inoltre ad essere impiegati come guide alpine e come attrezzatori di vie, e quindi anche le vittime dell'incidente del 18 aprile, sono in gran parte giovani padri di famiglia. L'associazione di alpinismo nepalese, una sorta di sindacato della categoria, ha lanciato un ultimatum al governo richiedendo assicurazioni per i lavoratori e risarcimenti per figli e mogli di chi è morto facendo il proprio lavoro. Dato l'indotto economico (oltre 2 milioni di euro, circa il 10% del PIL nazionale) legato alle scalate ed i 318 clienti che hanno già pagato per salire nei prossimi mesi, il governo nepalese non esiterà a soddisfare le richieste.

Il malcontento degli sherpa però, popolazione semplice e certamente non avida di natura, non è dettato tanto da questioni economiche quanto dalla scarsa considerazione di cui godono. Si sentono trattati alla stregua di facchini a casa loro da stranieri venuti ad affrontare le loro montagne. L'anno scorso il loro nervosismo era sfociato in una violenta ribellione che aveva coinvolto anche l'alpinista bergamasco Simone Moro: l'italiano ed un suo compagno di spedizione stavano risalendo un versante in cui un gruppo di sherpa era al lavoro. I due alpinisti si sono avvicinati, trovandosi a dover attraversare la zona in cui le guide stavano lavorando, ma a causa di un'incomprensione sono iniziati a volare insulti e spinte in alta quota. Tornati al campo I la situazione si è aggravata ancor di più perché anche gli altri nepalesi, che avevano sentito di quello che era avvenuto per radio, hanno iniziato a comportarsi aggressivamente costringendo gli alpinisti a fuggire via ed a rinunciare al loro progetto (che non prevedeva assolutamente l'utilizzo delle infrastrutture piazzate dagli sherpa).

Tornando all'incidente dei giorni scorsi una persona che di Himalaya se ne intende, Rehinold Messner, ha dichiarato che «in questo caso si tratta di morti sul lavoro, non di un incidente alpinistico». Lo stesso Simone Moro invece, che per molti anni ha lavorato proprio sull'Everest come responsabile dei mezzi di soccorso in alta quota, in un'intervista ha fatto alcune considerazioni generali molto rilevanti: bisogna sottolineare che gli interessi economici in ballo sono tali che nessuno ha interesse a fermare il buisness delle scalate, nemmeno gli sherpa stessi che percepiscono stipendi molto buoni considerando il costo della vita in Nepal. Se improvvisamente questo via vai di persone scomparisse, per queste popolazioni sarebbe come "tornare alla preistoria". D'altra parte è innegabile che il turismo di massa sta creando un vero e proprio sovraffollamento sull'Everest. Per salire in vetta ci si deve mettere in fila ed attendere in proprio turno come al semaforo in centro. Una soluzione? Si potrebbe creare una sorta di «patente» per ogni alpinista che obblighi a tentare la vetta di altri due ottomila prima di affrontare il tetto del mondo. Questo distribuirebbe il flusso di persone (e di dollari) anche in altre vallate del paese, rendendo più leggere le pressioni ed i carichi di lavoro sotenuti dagli sherpa. 

 

 

Foto: Wikipedia - Youtube

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