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Guerra economica: "Economic Warfare"

Il prof. Virgilio Ilari, a lungo docente di Storia delle Istituzioni Militari presso l’Università Cattolica di Milano, fondatore e presidente della società di storia militare, lunedì 10 ottobre, dalle 8,30 terrà una lezione sul tema della guerra economica nel quadro del mio corso di storia del mondo contemporaneo. Del prof Ilari, mio vecchio amico ed uno dei maggiori esperti italiani di problemi militari, pubblico in anteprima questo paper introduttivo al tema. Ovviamente chi voglia a aggiungersi ai miei studenti sarà gradito ospite.
 A.G.


Guerra economica
di Virgilio Ilari
I primi ad accorgersi, in Italia, che siamo in piena guerra economica e finanziaria mondiale sono stati i giuristi. Non a caso, perché da vari anni debbono occuparsi sempre più frequentemente delle sanzioni penali inflitte da tribunali americani a persone fisiche e giuridiche europee per violazioni di embarghi unilaterali americani. Sollecitati dal centenario della grande guerra, nel 2014 gli economisti italiani hanno dedicato un eccellente convegno alla storia dell’economia e della finanza di guerra (war economics), ma lo studio della guerra economica (economic warfare) non attrae chi non la vede o la ritiene pregiudizialmente irrilevante in un sistema globalizzato. Né il problema è stato finora percepito dai nostri esperti di strategia e geopolitica, che pur trattano temi come competizione per le risorse, controterrorismo finanziario, spionaggio economico o «intelligence» aziendale e da qualche anno usano l’aggettivo «geo-economico». Che siano dettagli di un coerente sistema di guerra economica mondiale non è infatti evidente, se non si conosce come questo sistema è stato concepito, forgiato e applicato nel corso di un secolo e mezzo e si ignorano la montagna di studi scientifici e gli innumerevoli atti pubblici (accordi internazionali, legislazioni nazionali e attività amministrativa e giudiziaria) che ne regolano il funzionamento, ben più letale ed efficace di hackers e droni. Inoltre l’idea stessa della guerra economica contraddice il pregiudizio, da noi tuttora dominante, sulla «pace liberale» e sulla fine della storia e dello stato.

Ma anche se storia & stato, da noi, sono aboliti, vale la pena vedere se per caso sopravvivono altrove. Siamo perciò scesi in campo noi storici militari, desiderosi una volta tanto di servire a qualcosa. La Società Italiana di Storia Militare ha infatti dedicato il suo Quaderno 2017 alla storia della guerra economica dal 1763 a oggi e riunito una quarantina di studiosi tra soci e amici di vari paesi e di varia competenza disciplinare per trattare l’argomento con un taglio enciclopedico. Come lavoro preliminare, durante l’estate ho redatto una guida cronologico-bibliografica di oltre 200 pagine in cui sono riassunti fatti e testi rilevanti dal 1900 al 2016, intitolata Economic Warfare. The Western Way of Warfighting. Non farò qui il riassunto del riassunto, ma il lettore interessato può leggere o scaricare la guida dalla mia pagina su academia.edu.

Noi storici, infatti, la guerra economica siamo stati costretti a studiarla: è una di quelle categorie moderne indispensabili per mettere a fuoco aspetti e connessioni in precedenza ignorati o sottovalutati. Prendiamo gli attuali dibattiti americani sulla cosiddetta «Thucydides trap» e sul «Megarian decree». Il primo riguarda il conflitto sino-americano, pronosticato con la teoria di Tucidide dello scontro «inevitabile» tra due potenze cresciute in parallelo; l’altro la questione se le sanzioni economiche siano alternative al ricorso alle armi ovvero lo provochino (Furono le sanzioni ateniesi contro Megara, alleata di Sparta, a provocare la guerra del Peloponneso? Fu l’embargo petrolifero americano al Giappone a provocare Pearl Harbour?). Questi sono due casi tipici di exempla historica, ossia il nefasto uso retorico del passato per mistificare il presente. Ma applicare la categoria della guerra economica allo studio della guerra del Peloponneso allarga invece la nostra coscienza storica, perché mette in evidenza che il nodo strategico del conflitto stava nella reale capacità degli spartani di distruggere le risorse alimentari dell’Attica e di tagliare l’afflusso di oro e merci dalla Tracia e dal Ponto.

Altro caso di guerra economica ante litteram fu il Blocco continentale, l’autogol fisiocratico-protezionista che fece implodere l’Europa napoleonica alienandole il consenso della plutocrazia imperiale. Ma approfondendo la genesi di questa risposta suicida a Trafalgar, emerge la sua connessione con l’impatto globale dell’indipendenza americana (non a caso cominciata con un tipico atto di guerra economica, il boicottaggio del tè). Riusciamo così a percepire e impostare questioni di grande rilievo storico in precedenza trascurate, come la mancata saldatura tra le due guerre parallele del 1812-1815 (gli incendi di Washington e di Mosca furono quasi contemporanei). Quel passato si prolunga in qualche modo sul nostro presente?

Noi non lo vediamo chiaramente, perché la nostra bussola storica, giuridica, geopolitica, militare della guerra è orientata sulla linea di collisione Eurasiatica – quella del Grande Gioco (1807-1907), delle guerre mondiali calde (1792-1815 e 1894-1945) e della guerra fredda (1946-1991) – che oppone l’impero continentale più esteso all’impero marittimo più potente e verte sul controllo del promontorio europeo e degli sbocchi continentali all’Atlantico, all’Oceano Indiano e al Pacifico (via Baltico, Mediterraneo, Golfo e Mar Giallo). Qui la scena storica è stata occupata dalle battaglie e dalle epopee nazionali, abituandoci a considerare «guerra» esclusivamente l’uso attuale o potenziale della forza militare.

Ci resta perciò più difficile percepire l’altra linea di collisione, quella Atlantica, fra la Prima e la Nuova Talassocrazia occidentale, dove, dal 1763 al 1939, Russia e America si sostennero reciprocamente contro il comune avversario inglese. Qui dopo il 1815 non vi furono più conflitti armati, anche se i piani di guerra americani contro Canada e Gran Bretagna proseguirono fino al 1939. Ma l’attacco americano alla sterlina che nel 1956 vanificò in tre giorni il successo militare di Suez è oggi studiato come un esempio di guerra finanziaria “pura”; per quanto Londra non mancò di reagire, silurando nel 1957 l’embargo occidentale contro la Cina. Storia di ieri? Non proprio, se pensiamo al Brexit che complica il TTIP e all’adesione inglese alla Banca d’investimento nelle infrastrutture asiatiche (AIIB), la sfida finora più seria al sistema finanziario internazionale a guida americana.

L’espressione «economic warfare» fu coniata dal governo britannico nel giugno 1937 in riferimento alla Germania e ministeri con quel nome furono istituiti nel 1939 in Inghilterra e nel 1942 negli Stati Uniti, dove il concetto fu particolarmente analizzato. L’EW rappresentava un salto di qualità rispetto alle precedenti teorie di attacco al potere economico e finanziario nemico, perché consentiva all’America di consolidare e sfruttare la propria supremazia economica, organizzando – mediante legislazione nazionale e accordi internazionali – una vera e propria macchina da guerra economica in grado di pianificare e attuare un mix di misure economiche, finanziarie e militari.
Durante la seconda guerra mondiale queste ultime furono le più vistose, perché l’aviazione consentì di passare dal semplice blocco (navale e/o subacqueo) dei rifornimenti alla paralisi del sistema di produzione e distribuzione del nemico. E’ noto il dissenso di John Kenneth Galbraith sul carattere decisivo dei bombardamenti strategici alleati, ma a scegliere gli obiettivi tedeschi furono gli stessi economisti americani poi impiegati nell’elaborazione del Piano Marshall, come Walt Whitman Rostow e Charles Poor Kindleberger: il che era logico, perché avendo distrutto l’economia tedesca, sapevano come ricostruirla. E l’esperienza della seconda guerra mondiale fu affinata durante la guerra fredda, con la pianificazione nucleare «contro-risorse», mentre gli strumenti militari della guerra economica sono oggi ancor più precisi ed efficaci: blocchi navali e bombardamenti strategici non sono mancati nel post-guerra fredda, più spionaggio, contrabbando, sabotaggi ed eliminazioni.

Ma l’attacco armato sta alla guerra economica come l’intervento chirurgico alla terapia. Le misure ordinarie sono quelle non militari, e queste sono state originariamente sperimentate nella linea di collisione atlantica, e solo negli ultimi settant’anni applicate alla linea Eurasiatica. Il primo acquisto preclusivo (quello della Louisiana) risale al 1803; il primo Embargo Act al 1807. A porre fine alla diplomazia delle cannoniere (il recupero militare dei crediti privati), iniziata nel 1850 contro la Grecia, fu, nel 1903, il corollario Roosevelt alla Dottrina Monroe, da cui seguirono la Diplomazia del Dollaro e le Banana Wars. Come John Maynard Keynes aveva previsto già nell’ottobre 1916, tra le due guerre gli Stati Uniti usarono i loro crediti di guerra, peraltro modesti, come «un laccio al collo» dell’Impero britannico: e inoltre modificarono a proprio favore gli equilibri geo-economici sia attraverso il controllo degli armamenti (conferenze navali del 1921-1930) sia attraverso la competizione petrolifera.

Il peso determinante degli Stati Uniti fu ribadito dall’esperienza delle sanzioni, introdotte dalla Società delle Nazioni su proposta di Woodrow Wilson: il fallimento delle sanzioni collettive all’Italia nel 1935 dipese dalla mancata adesione americana, mentre l’embargo unilaterale contro il Giappone lo mise con le spalle al muro.

Fra il 1935 e il 1939 il prevalere delle correnti isolazioniste obbligò gli Stati Uniti ad una rigida neutralità, ma in compenso Roosevelt ottenne importanti riforme costituzionali che, innestate sul Trading with the Enemy Act del 1917, concentrarono nella Casa Bianca dei veri e propri poteri assoluti di guerra economica. Questi, unitamente alle sanzioni, all’arms control e agli aiuti economici configuravano una vera e propria macchina da guerra economica che fu applicata e potenziata durante la guerra fredda.

La fase iniziale (1946-1963) fu «difensiva», basata da un lato sul «contenimento» (incluso il blocco economico indiretto) del mondo comunista (il cui sviluppo continuava a dipendere dalla tecnologia occidentale, parzialmente procurata mediante spionaggio e triangolazioni) e dall’altro sulla «foreign economic policy» teorizzata da Eisenhower tesa a consolidare la dipendenza economica del mondo libero dagli Stati Uniti (Bretton Woods, Piano Marshall, Alleanza per il Progresso) e ad affermare la supremazia sull’Inghilterra.
Durante la «distensione» (1963-1978) la guerra economica fu ridimensionata dalla gravissima crisi finanziaria americana indotta dalla guerra del Vietnam, che portò alla contestazione (de Gaulle 1965) e infine all’abbandono (Nixon 1971) del sistema monetario di Bretton Woods (Gold Exchange basato sul dollaro). Fu tuttavia bilanciata dalla spaccatura del blocco comunista (Ostpolitik e viaggio di Nixon in Cina) e dal declino dell’influenza sovietica nelle sinistre europee. La presidenza Carter segnò una ripresa dell’iniziativa americana (accordi di Helsinki, Trappola Afghana), ma fu Reagan a realizzare l’uscita prioritaria dalla crisi (1981-85) e a lanciare l’offensiva economica finale per costringere l’URSS a bruciare le sue declinanti risorse economico-finanziarie impegnandola (Star Wars Speech, 1983) in una corsa agli armamenti più declaratoria che sostanziale e soprattutto concordando con l’Arabia Saudita una iperproduzione del petrolio tale da dimezzare le rendite sovietiche (manovra ripetuta contro la Russia nel settembre 2014). Nelle fasi più acute della guerra fredda (in particolare fino al 1954 e dopo il 1980) gli Stati Uniti cercarono di limitare al massimo il commercio tra il «mondo libero» e il mondo comunista, anche creando forti tensioni con gli alleati e in particolare con la Germania per l’«Ostpolitik» e il gasdotto sovietico-polacco. I «falchi» sostenevano infatti che l’economia sovietica era, come quella nazista, una «war economy», guidata non da criteri economici ma da scopi strategici e geopolitici e che il lobbismo sovietico per incentivare il commercio e i trasferimenti di tecnologia occidentale era un’«economic warfare», il cui vero scopo era aumentare il potenziale militare, «prendere in ostaggio» capitali e creare dipendenza energetica dall’URSS.

Accanto al perfezionamento degli embarghi e delle sanzioni, uno degli strumenti fondamentali del blocco economico occidentale al mondo comunista fu l’estensione del sistema americano di controllo delle esportazioni di beni e tecnologie strategici prima ai loro alleati europei, sudamericani e asiatici (CoCom 1949-1994; ChinCom 1950-57) e poi alla maggior parte del mondo, dando vita ai regimi multilaterali (Multilateral Export Control Regime, MECR). Da sottolineare che a partire dagli anni 60 l’estensione quali-quantitativa dei controlli si è sviluppata in forme sempre più cooperative e sempre meno coercitive, facendo leva sul comune interesse alla nonproliferazione delle armi di distruzione di massa e poi anche sul controllo delle tecnologie duali (Wassenaar Arrangement, 1996).

Fin dalla Conferenza navale di Washington l’iniziativa per il controllo, la limitazione, la riduzione, il bando e la non-proliferazione di armamenti è infatti anche una costante della politica estera americana, e riflette la graduale costruzione di un sistema di sicurezza internazionale sempre più vincolante e sempre più conforme agli interessi strategici e geopolitici degli Stati Uniti, tanto da poter essere definito un «embedded multilateralism». Naturalmente il processo è stato accidentato e con fasi alterne. In particolare i negoziati bilaterali della guerra fredda sulle armi strategiche (ABM, SALT, INF, START) sono stati del tutto analoghi alle campagne e alle battaglie delle guerre mondiali calde, anche per conseguenze geopolitiche (in particolare l’accordo INF del 1987 ha influito sugli eventi del 1989-91). Inoltre gli accordi multilaterali sulle armi di distruzione di massa (WMD, NBC) e su certi tipi di armamenti convenzionali, ratificati dalla maggior parte dei paesi con significative eccezioni (soprattutto la Cina), recepiscono per molti aspetti le regole e le procedure nazionali americane.
Lungi dal diminuire, dopo il 1991 la guerra economica si è intensificata per la comparsa di nuove sfide potenziali al «New American Century», anche se l’iper reazione degli Stati Uniti sembra essere controproducente, perché spinge i paesi sotto attacco a coalizzarsi (BRICS, SCO, AIIB) ed erode quote di consenso e di mercato internazionale. Inoltre, come è emerso in occasione della c. d. «revoca» delle sanzioni a Cuba e Iran, il sistema ha perso ogni flessibilità politica, in parte perché molte sanzioni sono di iniziativa congressuale, e in parte perché quelle presidenziali delegano una discrezionalità assoluta e inappellabile al Segretario al Tesoro, che attiva direttamente il sistema giudiziario, dando luogo ad una giurisdizione di fatto extraterritoriale che non ammette defezioni fra socii e clientes (eosdem hostes habeto). Durante la guerra fredda le uniche sanzioni sono state di fatto quelle unilaterali americane (oltre 120). Dal 1988 si sono aggiunte sanzioni collettive UN ed EU (nel 2016 l’EU tiene sotto sanzione ben 34 paesi): ma, prive di virtù propria, funzionano solo perché di fatto sono estensioni, spesso aggravanti, delle sanzioni unilaterali americane.

Virgilio Ilari

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