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Guerra all’Isis: a che punto siamo?

Il Califfato sta diventando il convitato di pietra di tutte le discussioni di politica estera: tutti ne parlano, tutti vogliono spazzarlo via, ma nessuno muove un dito. Allora che si fa?

L’impressione che si riceve è che gli occidentali stiano abituandosi all’idea che il Califfato c’è e ci resterà, magari insieme alla speranza di trovarci un qualche modus vivendi, per cui Al Baghdadi ed i suoi si accontentino di quel che hanno o poco più e al massimo, diventino un problema per russi ed iraniani, ma che non diano più fastidio di tanto agli interessi franco-anglo-americani. Se davvero c’è questo calcolo è il frutto di una spaventosa cecità.

Personalmente non credo al disegno di “islamizzazione del Mondo” attribuito all’Isis dalla paranoia che si va diffondendo e nel mio prossimo libro (in uscita 17 marzo) cerco di spiegare il perché. E non credo neppure che l’Isis pensi praticabile il disegno di un unico califfato dal Marocco all’Indonesia, ma l’attuale estensione è troppo al di sotto delle sue aspirazioni.

Quello che si capisce è che, almeno per ora, è una cosa molto più precisa nell’area compresa fra Suez, il mediterraneo, la penisola arabica e l’Iran, quello che alcuni osservatori americani iniziano a definire Sunnistan (paese dei sunniti) e che comprende Giordania, Libano, Palestina, Sinai, province sunnite di Siria ed Iraq, con rapporti tutti da definire con gli stati della penisola arabica (in sostanza l’Arabia Saudita).

Quello che era stato promesso agli arabi che avevano fatto la guerriglia contro l’impero ottomano e che fu cancellato dallo sciagurato piano Sykes-Picot. Lo stesso progetto di stato unico in quell’area tornò a galla, più o meno identico, nel 1946 ma poi naufragò. Come si vede un disegno che si è presentato in diverse occasioni e che è abbastanza presente nell’immaginario politico arabo.

Gli uomini dell’Isis hanno questo disegno sin da quando erano la “Al Quaeda Iraq” diretta da Al Zarkawi ed al quale non è probabile che rinuncino tanto facilmente. Quindi, non è realistico pensare che tutto si risolva con la nascita di un nuovo stato arabo, magari un po’ turbolento, forse uno stato canaglia in più con il quale convivere tenendo l’arma al piede.

Con il Califfato non c’è accordo possibile, anche perché gli occidentali sono la testa di turco di cui hanno bisogno per conquistare il consenso nelle masse arabe. Il vero nemico dell’Isis (o se preferite Daesh) sono le borghesie nazionali ed i ceti politici di quell’area, presentate come strumento servile dell’Occidente, che disertano la “guerra santa” contro di esso. In questa economia di discorso, i fondamentalisti hanno bisogno di presentare se stessi come i nemici irriducibili dei “crociati” e, dunque, non possono fare alcuna pace con l’Occidente perché questo farebbe crollare tutta la loro retorica politica.

C’è poi da considerare che, se l’Isis riuscisse e mettere radici anche solo come “stato di fatto”, la conseguenza immediata sarebbe un allargamento dell’area di crisi e non un restringimento. In primo luogo, il semplice fatto di essere riuscito a resistere all’assalto degli occidentali (in verità assai modesto, ma visto come ben più feroce della realtà, da parte degli arabi) darebbe una forte credibilità al progetto ed un parallelo crollo di credibilità delle classi dominanti locali: il primo paese ad essere pienamente risucchiato nella guerra civile sarebbe la Giordania.

In un secondo momento, le tensioni si collegherebbero fatalmente con quelle israelo palestinesi interrompendo definitivamente ogni prospettiva di pace fra i due popoli. Difficile pensare che Israele resti ad assistere senza muoversi. Immediatamente a ridosso, esploderebbe al massimo grado di violenza il conflitto con gli sciiti, sia perché il disegno del Sunnistan comporta anche un disegno di pulizia etnica delle zone siriane (soprattutto) ma anche iraquene abitate da sciiti e questo non può che comportare uno scontro diretto con l’Iran.

E per adesso lasciamo da parte il problema dei rapporti con i sauditi di cui sappiamo molto poco: sappiamo che c’è una evidente intesa fra essi e l’Isis, ma ignoriamo se si tratti di una intesa momentanea, con reciproche riserve mentali di regolare il conto più avanti o una intesa di lungo periodo che spartirebbe l’area araba ad est di Suez in due solo stati alleati fra loro.

Dunque, mi pare sufficiente a dimostrare che non ci sia una via pacifica per risolvere la crisi del Califfato con il quale non esiste la possibilità di un qualche accomodamento ed occorra convincersi che il Califfato va semplicemente tolto di mezzo, pena un incendio molto più esteso e grave di quello già non lieve che è in corso. Ed è anche evidente che la (pretesa) guerra aerea occidentale non risolve il problema dato che, a due anni di distanza, il Califfato è ancora lì.

Il che, però, non significa affatto che la soluzione sia un’altra sconsiderata azione di terra di occidentali che, al contrario, sarebbe un bel regalo agli jhiadisti che estenderebbe ancora più l’incendio (ne parlo nel mio libro come “la strategia della Fitna” e l’ “operazione Daquib”). Il guaio peggiore è che da un quarto di secolo, gli occidentali non sono stati capaci di altro contrasto che quello militare contro l’insorgenza jhiadista. Ci si è dimenticati del tutto che esiste, anzi occorre che sia predominante, il contrasto politico: ad esempio conquistare il consenso delle masse arabe. Isolare l’Isis picchiando sui suoi alleati nascosti, puntare sulla destabilizzazione interna, bloccare le sue risorse finanziarie, avviare operazioni di guerra coperta, spingere una parte dei paesi arabi (quelli più immediatamente minacciati da un successo di Daesh) a formare una coalizione che passi ai fatti, armare decentemente i curdi (anche a costo di allungare qualche sonora sberla ad Erdogan che si sta prendendo troppe libertà), coinvolgere nella strategia di isolamento anche i paesi terzi, eccetera. Magari prossimamente diremo qualcosa in più a questo proposito.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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