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Gli aspetti processuali del Segreto di Stato illustrati con le regole del calcio

“Come potrebbe la squadra del popolo vincere la ‘coppa della sovranità’ con le attuali regole del gioco?” 

1. Premessa

Il rapporto tra democrazia e segreto è un problema da sempre molto sentito.

Nell’antica Grecia i cittadini si riunivano nell’agorà per discutere e decidere della sorte comune della polis. L’essere informati, infatti, è diritto presupposto all’esercizio pieno di tutti gli altri diritti individuali.

Pur tuttavia il sacrosanto diritto del popolo di conoscere le operazioni del potere è bersaglio prediletto del pensiero antidemocratico, che ha interesse ad occultare la verità reale. Se il potere mostrasse il suo vero volto, probabilmente, non sarebbe tollerato dai sudditi (copyright MACHIAVELLI).

Un potere incontrollabile e arbitrario, invece, assicura la formazione e la manipolazione del consenso, il più delle volte conquistato con l’illusione e la menzogna.

Queste, in sintesi, le ragioni per le quali la disciplina del segreto di Stato - in particolare i suoi aspetti processuali - costituisce da sempre ago della bilancia che mette in evidenza l’architettura complessiva di un ordinamento giuridico.

Il nocciolo della questione verte tutto intorno ad una domanda antichissima e decisiva:

A chi spetta “l’ultima parola” sulla sussistenza di una barriera all’accertamento, in caso di opposizione del segreto di Stato?

La domanda non è altro che la coniugazione della famosa locuzione latina “Quis custodiet ipsos custodes?”, tratta dalla VI Satira di Giovenale.

 

Ebbene, partendo dal codice Rocco, cercherò, servendomi anche delle regole calcistiche, di analizzare le diverse risposte che l’ordinamento, nel corso degli anni, ha saputo fornire al quesito; seguirà, in conclusione, una proposta di riforma.

 

2. Il segreto nel codice Rocco

L’ideologia che ha ispirato il Codice Rocco è improntata ad una gerarchia di valori che colloca l’interesse dello Stato in una posizione prioritaria rispetto ad ogni altro interesse; sull’altare della ragion di Stato ogni diritto è sacrificabile.

Nel codice Rocco il segreto di Stato è blindatissimo e impenetrabile all’autorità giudiziaria. Il magistrato per procedere, in caso di opposizione del segreto, necessita di una particolare autorizzazione ministeriale. Se il giudice dubita della fondatezza dell’opposizione può rappresentarlo al Procuratore generale presso la Corte d’appello, affinché quest’ultimo, a sua volta, possa riferirne al Ministro per la grazia e la giustizia. Si rende quindi necessaria l’autorizzazione dell’autorità politica, quale condizione di procedibilità dell’azione penale; per esempio, per perseguire ex art. 372 c.p.[1] il teste supposto reticente.

Il perimetro del segreto di Stato, come spiega il suo estensore[2], è molto esteso e assorbe ogni notizia destinata a rimanere segreta “nell’interesse della sicurezza dello Stato o, comunque, nell’interesse politico, interno o internazionale, dello Stato” (art. 256 c.p.).

Nel codice Rocco, quindi, l’ultima parola sulla sussistenza di una barriera all’accertamento, in caso di opposizione del segreto di Stato, spetta all’autorità politica, nella persona del Ministro per la grazia e la giustizia.

Trasportiamo la regola sul campo di calcio. Sarebbe come stabilire che l’arbitro, per assegnare un rigore alla squadra del popolo debba chiedere l’autorizzazione al Commissario tecnico dell’altra squadra; il che, evidentemente, è un’eresia.

 

a) il segreto nel periodo post-costituzionale

Con la Carta Costituzionale l’Italia si dà un assetto istituzionale completamente nuovo e rispetto al passato. Si pensi, per esempio, ai principi di autonomia e indipendenza della magistratura, di separazione dei poteri, di sottoposizione dei giudici soltanto alla legge, (artt. 101, II comma, e 104, I comma, Cost.).

Nonostante sia mutata l’architettura dell’ordinamento, il legislatore, inspiegabilmente, lascia invariato il quadro normativo del segreto. In particolare, non modifica l’istituto dell’autorizzazione ministeriale, quale condizione di procedibilità dell’azione penale. Ciò desta tanto più stupore se solo si considera il clima storico in cui tale sopravvivenza ebbe luogo. Si considerino, per esempio, i casi Sifar, De Lorenzo, il processo sul cd. “golpe Borghese”, quello per la strage di Piazza Fontana, quello delle “schedature FIAT”. Numerosi sono stati i casi giudiziari che hanno trovato nel segreto di Stato un muro di gomma sul quale è rimbalzato addirittura il diritto di difesa e la conseguente presunzione d’innocenza. Per tutti, si consideri il procedimento avverso Eugenio Scalfari e Lino Iannuzzi per diffamazione a mezzo stampa. La vicenda prese inizio da un articolo a firma di Iannuzzi apparso sul settimanale “L’Espresso” (nel 1967), di cui Scalfari era direttore responsabile. Nell’articolo si sosteneva che il generale De Lorenzo fosse l’organizzatore di un tentativo di golpe fallito nel 1964. Il processo da subito risultò condizionato dall’opposizione del segreto di Stato, da parte di testimoni a discarico citati dagli imputati. Questi ultimi furono condannati perché non ebbero la possibilità di difendersi, in violazione della loro presunzione d’innocenza. Da alcuni passaggi della sentenza emerge una certa concezione duble face della verità: da una parte la verità reale[3], dall’altra, quella processuale.

Nonostante i principi costituzionali, l’ultima parola è ancora del Ministro e l’autorità giudiziaria deve arrendersi di fronte ad un atto “politico[4]”, privo di motivazione, di opposizione del segreto.

 

Il giudice di gara per assegnare un rigore alla squadra del popolo continua a dover chiedere l’autorizzazione al C.T. dell’altra squadra.

 

3. La svolta giurisprudenziale e legislativa del segreto di Stato

Si dovrà attendere quasi trent’anni dall’avvento della Costituzione per iniziare a delimitare la dipendenza del potere giudiziario da quello esecutivo.

Sarà la Corte Costituzionale (sent. n. 86 del 24 maggio 1977) ad aprire timidamente le porte ad uno strumento di controllo dell’esercizio dei poteri di allegazione del segreto.

I giudici dubitano della compatibilità con i principi costituzionali delle norme che prevedono l’autorizzazione ministeriale quale condizione di procedibilità dell’azione penale (artt. 342 e 352 c.p.p.).

  1. La Corte dichiara che il concetto di “sicurezza dello Stato” non può prescindere dall’atteggiarsi della Repubblica come ordinamento democratico a sovranità popolare. Di conseguenza la sua sicurezza, esterna e interna, è oggettivamente circoscritta alla sua integrità territoriale, alla sovranità popolare, al ripudio dello strumento bellico (come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”), al funzionamento degli organi costituzionali, al libero esercizio dei diritti inviolabili della persona.
  2. In particolare, i giudici delle leggi precisano che gli interessi tutelabili a mezzo del segreto nello Stato-comunità non devono confondersi con gli interessi del “Governo e dei partiti che lo sorreggono”.
  3. La Corte, inoltre, sancisce che “mai il segreto potrebbe essere allegato per impedire l’accertamento di fatti eversivi dell’ordine costituzionale”. Proprio quello che nella precedente storia giudiziaria italiana non di rado era accaduto.
  4. La Corte costituzionale, infine, impone l’obbligo di motivare il provvedimento di conferma, stabilendo che la motivazione costituisce “presidio di legalità dell’atto di conferma, sia quale limite intrinseco alla discrezionalità dell’autorità preposta, sia quale strumento di controllo, ex post, tanto ad opera del Parlamento, quanto della stessa Corte Costituzionale in sede di conflitto di attribuzione”.

I Giudici delle leggi sentenziano che “sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 342 e 352 c.p.p. nella parte in cui prevedono che il Procuratore generale presso la Corte d'appello informi il Ministro per la grazia e la giustizia e non il Presidente del Consiglio dei ministri”.

Bene fa la Corte a rilevare il rischio che gli interessi tutelabili dal segreto possano confondersi con quelli del Governo e dei partiti che lo sorreggono, ciononostante, avrebbe dovuto osare di più e proporre una soluzione diversa. Ma tant’è.

 

Esattamente cinque mesi dopo, il legislatore, muovendosi sulla linea tratteggiata dalla Corte, vara la legge n. 81 del 24 ottobre 1977, con la quale recepisce le sue indicazioni. D’ora in avanti, se il giudice dubita della fondatezza dell’opposizione, interpella direttamente il Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale ha la possibilità di confermare il segreto entro i successivo 60 giorni dalla notifica dell’interpello.

Se il vertice dell’esecutivo non conferma nei termini, il teste ha il dovere di testimoniare, e se si ostina, il giudice potrà procedere ai sensi dell’art. 372 c.p..

Se, invece, il segreto viene confermato la macchina istruttoria deve arrestarsi.

L’ultima parola sulla sussistenza di una barriera all’accertamento in caso di opposizione del segreto di Stato è passata ora al Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

In termini Calcistici, non cambia molto.

i giudici della corte fanno una serie di premesse:

- Gli schemi di gioco non possono prescindere dalle regole del calcio.

- Il giudice di gara non può tifare per una delle due squadre.

- Nessuno può impedire all’arbitro di sanzionare i falli da rigore.

- Per contestare le decisioni arbitrali occorrono valide argomentazioni.

Nonostante tali premesse, però, i giudici non hanno il coraggio di andare oltre. Con le nuove regole, infatti, non cambia molto. il giudice di gara per segnalare un fallo deve chiedere l’autorizzazione, non più al commissario tecnico, ma al Presidente della squadra che l’ha commesso.

Il rischio di una commistione di interessi persiste, A meno che non si voglia sostenere che il presidente tifi per una squadra diversa da quella che rappresenta.

il legame che si stabilisce tra il Presidente del Consiglio e il suo Ministro non è molto diverso da quello che c’è tra il Presidente della società di calcio e il suo Commissario tecnico. 

 

4. Il segreto di Stato dopo la legge 3 agosto 2007, n. 124

 

L’attuale disciplina normativa del segreto di Stato è contenuta nel codice di procedura penale e nella legge 3 agosto 2007, n. 124, che accoglie al suo interno disposizioni di varia natura e oggetto.

Sul piano più strettamente processuale, la disposizione più importante[5] è l’art. 204 c.p.p.[6].

Tre sono i punti della norma che balzano subito agli occhi:

 

  • non possono essere oggetto del segreto fatti, notizie o documenti concernenti reati diretti all'eversione dell'ordinamento costituzionale”;
  • “se viene opposto il segreto, la natura del reato è definita dal giudice”;
  • “in nessun caso il segreto di Stato è opponibile alla Corte costituzionale”.

 

Evidenti le conseguenze processuali. Il legislatore introduce il concetto di “segreto costituzionalmente illegittimo”. Fatti eversivi dell’ordine costituzionale non possono ostacolare l’acquisizione di una prova nel processo penale, non godendo più, la notizia che ad essi si riferisse, di alcuna possibilità di tutela.

Dalla lettura della disposizione si deduce che il giudice, se ritiene l’eccezione irricevibile - per esempio, valuta che vi siano situazioni di pericolo per lo Stato - ha il dovere di disporre che il teste deponga, senza avviare la procedura di interpello del Presidente del Consiglio[7].

L’innovazione rispetto al passato non è di poco conto. La nuova architettura del segreto sembra costituzionalmente ineccepibile, in quanto più aderente ai principi di separazione dei poteri e di autonomia e indipendenza della magistratura.

Il meccanismo introdotto pare tutelare, finalmente, tutti gli interessi coinvolti, per questo fu accolto con soddisfazione e plausi unanimi da parte della dottrina.

In caso di eversione dell'ordinamento costituzionale, l’ultima parola è passata all’autorità giudiziaria.

 

La partita sembra finalmente equilibrata. L’arbitro può rilevare autonomamente - e senza bisogno di alcuna autorizzazione - i falli da rigore, e tutte quelle infrazioni la cui gravità è tale da porre a rischio la continuità stessa del gioco.

 

5. Lo stravolgimento delle intenzioni del legislatore.

 

Il comma secondo dell’art. 204 c.p.p. prevede che “del provvedimento che rigetta l’eccezione di segretezza è data comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri”.

La comunicazione ha – o moglio, dovrebbe avere - un valore meramente informativo. Non è una richiesta di autorizzazione; dal momento che, come detto, la decisione del giudice di non accogliere l’eccezione di segretezza è da configurarsi come immediatamente eseguibile.

Dopo meno di un anno, però, le norme di attuazione stravolgono l’istituto appena descritto, facendo assumere alla comunicazione una forma completamente diversa da quella per la quale la dottrina aveva esultato.

 

L’art. 66 disp. att. c.p.p. prevede che, pervenuta la comunicazione, il Presidente del Consiglio può confermare il segreto, laddove ritenga che quanto coperto da segreto “non concerne il reato per cui si procede”.

E’ rientrato dalla finestra ciò che meno di un anno prima era uscito dalla porta.

La disposizione, infatti, impone al giudice il blocco del procedimento per trenta giorni dalla comunicazione, termine ultimo per l’esercizio del potere presidenziale di conferma.

In sostanza il meccanismo dell’art. 204 c.p.p. subisce una completa metamorfosi.

L’ultima parola è tornata, nuovamente, all’autorità politica.

 

6. Prospettive di riforma del segreto di Stato.

 

Lo strumento del segreto è molto potente e decisamente incisivo. Un suo uso distorto, oltre a ledere i principi dell’ordinamento costituzionale, può porre in pericolo la stessa democrazia.

La possibilità di sbarrare l’esercizio della funzione giurisdizionale, potrebbe tramutarsi da mezzo di salvaguardia della sicurezza nazionale in strumento di destabilizzazione.

 

Non dico che sia successo, ma potrebbe accadere, per esempio, che la caduta di un politico, democraticamente eletto dal popolo, sia fatta precedere da una serie di rivelazioni sensazionali sulla sua vita personale e sui suoi vizi nascosti.

Si consideri che “nel 2009 è stato opposto il segreto di Stato alle indagini sull'archivio di dossier raccolto dal Sismi in un "ufficio riservato" di via Nazionale a Roma, spiando a partire dal 2001, intensamente fino al 2003 e poi saltuariamente fino al 2006, quattro procure della Repubblica (Milano, Torino, Roma e Palermo), 203 giudici di 12 paesi europei (di cui 47 italiani), giornalisti e politici dell'opposizione di centrosinistra, sorvegliandone le iniziative, intimidendoli con operazioni di disinformazione, fino a screditarli con manovre "anche traumatiche", secondo la definizione dei giudici inquirenti[8].

 

E ancora. Qualche anno fa ci siamo fatti coinvolgere nell’impresa di esportare la democrazia a quelle popolazioni di confine impoverite da decenni di dittatura. Poi ci siamo resi conto che di impoverito c’era anche l’uranio, presente nei proiettili degli alleati, di cui molti dei “nostri cari ragazzi” si sono ammalati. E oggi le nostre coste, non quelle degli alleati, sono invase da masse di clandestini che fuggono, giustamente, da guerre, fame e miseria. Si pensi che “in seguito alle dichiarazioni del pentito Carmine Schiavone sui rifiuti nucleari e tossici verbalizzate nel 1993, il governo pose nel 1997 il segreto di Stato[9].

 

Prima di avanzare una proposta di revisione normativa, è opportuno tornare sul campo di calcio e mettersi, per una volta, nei panni dei giocatori.

 

Se il calciatore è consapevole del fatto che, in caso di fallo da rigore, la parola del mister vale più di quella dell’arbitro, non si rifiuterà di attuare schemi di gioco scorretti o comportamenti antisportivi, eventualmente, prospettatigli dal mister. Men che meno, se il suo ingaggio è integrato da un consistente premio (leggasi ‘indennità di cravatta’).

 

Mi pare ovvio che, in un contest di riforma, le proteste per gli errori arbitrali debbano essere indirizzate all’A.I.A. (Associazione Italiana Arbitri) oppure, eventualmente, alla F.I.G.C. (Federazione Italiana Gioco Calcio) e non al presidente della squadra che commette il fallo.

 

Una revisione normativa, pertanto, dovrebbe concentrarsi proprio sull’art. 66 att. c.p.p.. La disposizione per la sua formulazione ambigua – “quanto coperto da segreto non concerne il reato per cui si procede” - ha due possibili significati: che la prova sia irrilevante oppure che il reato non mirasse all’eversione dell’ordinamento costituzionale.

In ambo i casi non spetta all’autorità politica, che potrebbe non essere estranea ai fatti, valutare quale prova sia rilevante e, soprattutto, la qualificazione giuridica da dare ai fatti contestati. 

Auspico, pertanto, che il secondo comma dell’art. 66 sia riscritto come di seguito:

“Quando perviene la comunicazione prevista dall’articolo 204, comma 2, del codice, il Presidente del Consiglio dei Ministri se ritiene che ricorrano i presupposti indicati nei commi 1, 1-bis e 1-ter dello stesso articolo, perché il fatto, la notizia o il documento coperto dal segreto di Stato non concerne il reato per cui si procede, lo comunica al Consiglio Superiore della Magistratura[10] per le valutazioni del caso.

La comunicazione non sospende il giudizio[11].

 

Ad ogni modo, qualsiasi proposta di riforma non può prescindere da una preventiva revisione dello status militis, nel senso che il militare deve essere posto nella condizione di dire “signornò” allorquando gli si prospettino “comportamenti antisportivi”. Mi riferisco al fatto che gli appartenenti alle forze di polizia ad ordinamento militare – sebbene inseriti in una catena il cui ultimo anello si aggancia all’autorità politica - non sono posti nella condizione di dire “signornò” ai loro superiori. L’organizzazione attuale dell’ordinamento militare relega il militare in una condizione di tale subordinazione e vulnerabilità da rendere il principio dell’obbedienza leale e consapevole nulla più che un mito[12].

 

Mi piace concludere questa esposizione con le parole di uno dei più grandi profeti di oggi, che nelle sue riflessioni va sempre al cuore dei problemi del mondo contemporaneo:

«Il traffico delle armi è terribile, è uno degli affari più forti in questo momento. L'anno scorso, a settembre, si diceva che la Siria aveva le armi chimiche; io credo che la Siria non fosse in grado di farsi le armi chimiche. Chi gliele ha vendute? Forse alcuni di quelli che poi l’accusavano di averle? Su questo affare delle armi c'è tanto mistero».

(Papa Francesco, 30 novembre 2014, sul volo di ritorno dalla Turchia).

 Cleto Iafrate

Per leggere gli altri contributi dello stesso autore, clicca qui.

 

[1]Chiunque, deponendo come testimone innanzi all'Autorità giudiziaria, (…) tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due a sei anni”.

[2] «… il progetto non limita la portata delle sue disposizioni, ai soli segreti politici e militari, inerenti alla sicurezza dello Stato, … ma le estende a tutte le notizie, che nell’interesse dello Stato o, comunque, nell’interesse politico, interno o internazionale dello Stato, debbano rimanere segrete. E’ questa una necessaria conseguenza del diverso orientamento da me impresso a tutto il Titolo, le cui disposizioni debbano intendersi dirette alla protezione penale, non soltanto della sicurezza, ma dell’intera personalità dello Stato. Le notizie che debbono rimanere segrete ... costituiscono quei ‘segreti di stato’ i quali possono avere l’oggetto più vario, dalla sicurezza politica e militare dello Stato alla solidità delle sue finanze …». Stralcio della Relazione del guardasigilli Alfredo Rocco sul progetto definitivo del codice penale dal vol. V dei Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, a cura del Ministero della giustizia e degli affari di culto, Tipografia delle mantellate, 1929.

[3]Né varrebbe obiettare che gli art. 342 e 352 c.p.p. apparirebbero incompatibili col disposto del comma secondo dell’art. 24 Cost. che definisce diritto inviolabile, il diritto di difesa del cittadino … Diritto di difendersi riconosciuto ed assicurato … ma nel rispetto di quei limiti che, nel superiore interesse della collettività intera, vengono posti dalla legge nel giudizio penale all’accertamento della verità reale e che, ovviamente, si riverberano sulle possibilità e disponibilità difensive dell’imputato che possono così, ma non sempre negativamente, restare alterate nella loro efficacia”.

[4] L’atto politico si distingue da quello amministrativo in quanto “libero nel fine”, e, pertanto, caratterizzato da insindacabilità giurisdizionale e assenza di motivazione.

[5] Le altre sono gli artt. 202, 256, 256 bis, 256 ter, 270 bis, c.p.p., 66 disp. att. c.p.p. e 41, l. n. 124 del 2007.

[6] La norma accoglie le indicazioni contenute nell’art. 2, numero 70, della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (l. 16 febbraio 1987, n. 81); il quale prevedeva che “nessun tipo di segreto” potesse coprire “fatti, notizie o documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale”.

[7] Questa linea interpretativa fu ampiamente condivisa dalla dottrina. Si veda, per esempio, G. LOZZI, Lineamenti di procedura penale, Giappichelli, 2007, pag. 239. Nello stesso senso F. M. GRIFANTINI, Segreto di Stato e divieto probatorio nel codice di procedura penale 1988, in La Giusizia Penale, 1989, III, pag. 536, il quale, pochi mesi prima dell’entrata in vigore delle norme di attuazione, scrive: “Spetta sempre al giudice, in questi casi, verificare l’inesistenza del limite: poiché sarebbero illegittime le finalità del segreto e del divieto probatorio, il giudice potrà ordinare l’acquisizione della prova senza informare preventivamente il Presidente del consiglio”.

[10] Si consideri che la Corte costituzionale, già con sentenza n. 53 del 1966 ha precisato che il segreto politico-militare “… per l’ordinamento generale non è protetto dall’incontrollata e incontrollabile discrezionalità competente, ma subisce (o dovrebbe subire) un sindacato giurisdizionale …” (corsivo mio).

[11] Andrebbe rivista anche la composizione del COPASIR, nel senso che i membri dovrebbero appartenere tutti ai gruppi parlamentari dell’opposizione; e la politica delle retribuzioni. Non dovrebbero sussistere differenze stipendiali tra chi si occupa, in incognito, della sicurezza degli italiani e chi lo fa in divisa. Mi riferisco ai tanti militari, carabinieri poliziotti e finanzieri che quotidianamente combattono contro la criminalità col rischio di rimanere coinvolti in un conflitti a fuoco.

[12] Per un esauriente approfondimento sul punto, rimando al contributo pubblicato sull’ultimo numero della rivista di cultura giuridica “Diritto & Questioni Pubbliche” (p. 313), dal titolo “Obbedienza, ordine illegittimo e ordinamento militare.

 

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