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Giappone, i fantasmi della Ōmu Shinrikyō

TOKIO - Sono passati quasi vent'anni da una delle tragedie più efferate che il Giappone ricordi. Iniziando con il terribile omicidio dell’avvocato Sakamoto e della sua famiglia (4-11-1989) passando per il caso Sarin della città di Matsumoto (27-4-1994, sette morti) e terminando proprio con il più noto “incidente della metropolitana di Tokyo” (20-3-1995, tredici morti), la Ōmu Shinrikyō è diventata famosa in tutto il mondo come l’unico gruppo terroristico che ha usato armi chimiche in tempo di pace.

Raccontare della Ōmu Shinrikyō è sempre difficile anche perché, un po’ come i nazisti durante il processo di Norimberga, gli imputati si sono sempre detti pentiti ma mai colpevoli, semplicemente perché “eseguivano soltanto degli ordini”; anche se in questo caso si parlerebbe delle indicazioni di un Guru (尊師 , Sonshi in giapponese).

Nel corso degli anni gli esecutori materiali, come anche molti alti dirigenti del gruppo, sono stati individuati ed arrestati. L’ultimo in ordine di tempo, Hirata Makoto, dopo ben diciassette anni di latitanza.

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Per Nakagawa Tomomasa, Inoue Yoshihiro, Hayashi Yasuo ed infine per il Guru Asahara Shoko (all’anagrafe Matsumoto Chizuo) la pena di morte è stata decisa seguendo il massimo rigore legislativo.

Aspettando una data certa per l’esecuzione della sentenza i tre (il venerabile Guru infatti si è chiuso da anni in un silenzio “meditativo”), utilizzando dichiarazioni lampo, spesso contraddittorie e scarsamente verificabili, si sono riscoperti “testimoni chiave” durante i processi a carico di molti ex discepoli. Naturalmente l’opinione pubblica (e non solo) ha additato questa manovra come semplice e riuscito escamotage per allungare i tempi, in attesa di eventuali riaperture dei processi. Riuscito o meno questo tentativo è forse l’unico modo per provare a dipanare, si spera, la nebbia che ancora oggi avvolge alcune tristi vicende legate alla Ōmu Shinrikyō.

Proprio in questi giorni ha fatto molto discutere una dichiarazione rilasciata dall’ex latitante Hirata Makoto, dopo la condanna a nove anni per il ruolo avuto nel sequestro e omicidio di Kariya Kiyoshi (68 anni). Hirata, infatti, si dichiara “totalmente estraneo al piano omicida” e continua dicendo anche “di non aver fatto altro che guidare il furgone usato per il rapimento”. Tuttavia questa dichiarazione lascia piuttosto perplessi, visto il ruolo di alto dirigente e guardia personale di Asahara che lo stesso Hirata ricopriva al momento del delitto.

Il caso Kariya è probabilmente il più intricato tra quelli legati alle vicende della Ōmu Shinrikyō e di sicuro quello che più di frequente viene tirato in ballo quando si cerca di descrive l’ingarbugliata situazione dei processi agli ex componenti della “setta”.

Nel 1993 la sorella di Kariya Kiyoshi, direttore del centro notarile legato al municipio di Meguro, entra a far parte della Ōmu Shinrikyō. In quel periodo cominciano da parte della donna le offerte “volontarie” al gruppo (si parla di moltissimi soldi, quasi un milione in euro). Tuttavia i dirigenti della Ōmu Shinrikyō puntavano a ben altro: la donna era infatti comproprietaria insieme al fratello non soltanto del terreno dove era situato il municipio ma anche dell’edificio stesso del valore di oltre due miliardi di yen (quasi venti milioni di euro). La donna, capite le vere intenzioni dei suoi confratelli ed aiutata dallo stesso Kiyoshi, scappa. Da quel momento in poi il destino del direttore del centro notarile sarà segnato; la sera del 28 febbraio del 1995, uscendo dal lavoro, Kiyoshi viene rapito e caricato su un furgone. Il corpo non verrà mai più ritrovato.

Si scoprirà in seguito che, al fine di fargli rivelare il luogo dove si nascondeva la sorella, gli viene somministrato del Thiopental, meglio conosciuto come “siero della verità”, ma anche potente anestetico utilizzato in alcuni paesi per indurre il coma farmacologico. Kiyoshi muore tre giorni dopo per la quantità eccessiva di farmaco somministratagli. Il suo corpo viene dato alle fiamme e le sue ceneri gettate in un lago.

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Un errore fatale nella somministrazione del Thiopental oppure omicidio premeditato? Da questo dubbio legittimo, venuto fuori durante il processo, hanno inizio una serie di accuse incrociate che portarono i giudici ad aprire una serie di inchieste satellite. In questo modo gli imputati divennero testimoni e viceversa.

Hirata, accusato da Nakagawa (in attesa della pena di morte) di non essere stato soltanto l’autista del furgone ma anche complice diretto nell’omicidio, rifiuta la condanna a 9 anni inflittagli dal giudice. In questo modo, molto probabilmente, non soltanto si riaprirà il processo a carico di Hirata ma anche la condanna a morte di Nakagawa verrà ulteriormente rinviata perché, nel frattempo, divenuto testimone principale dell’accusa, dovrà essere presente durante tutto il processo.

Il corso degli eventi non può essere cambiato. Asahara Shoko, il grande manipolatore, questo concetto lo conosce fin troppo bene; dalla sua cella, seduto su un materasso con gli occhi chiusi, assorto in una dubbia meditazione, osserva le vicende di quelli che non molto tempo fa erano i suoi seguaci. Chissà se nutre un minimo di interesse o se aspetta soltanto la loro fine. 

 

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