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Gabbie salariali, ecco i segreti del grande bluff

Il tormentone dell’estate politica 2009 è quello delle gabbie salariali, altrimenti definite (dal loro inventore, Umberto Bossi) «territorializzazione del reddito». Non che questa precisazione sia di maggiore aiuto a comprendere esattamente di che si tratti, però. I leghisti hanno detto che l’espressione "gabbie salariali" non è corretta, ma sono loro ad averla usata per primi, salvo poi annodarsi in precisazioni assolutamente insoddisfacenti per comprendere quale è l’obiettivo "operativo". Si è parlato di «rapportare retribuzione e costo della vita al territorio» ignorando che, nel lungo periodo, il tasso di crescita delle retribuzioni reali (cioè al netto dell’inflazione) dipende dalla crescita della produttività, e non da una «scala mobile geografica». Senza contare che esiste un accordo-quadro.

Si tratta dell’accordo firmato lo scorso 22 gennaio tra governo e parti sociali (ad eccezione della Cgil), che prevede lo spostamento di importanti quote della retribuzione dalla contrattazione nazionale a quella settoriale ed aziendale. O forse sarebbe meglio definirlo accordo- cornice, visto che le modalità di attuazione restano ampiamente indeterminate. Un po’ come per il federalismo fiscale, a ben vedere.

La prima ipotesi che una mente mediamente razionale può avanzare è che la Lega intenda guidare (o dirottare, a seconda dei punti di vista) il processo di "riempimento" di contenuti dell’accordo. Ma in questo caso il Carroccio dovrebbe preliminarmente chiarire le idee al proprio interno. I dipendenti meno qualificati o quelli di aziende e settori a basso sviluppo della produttività non potranno vedere la propria struttura retributiva determinata dal fatto che al Nord gli affitti e la carne costano di più. La Lega dovrebbe quindi avere l’onestà intellettuale di dire ad un operaio bergamasco che il suo salario, a seguito della contrattazione decentrata, potrebbe risultare anche di molto inferiore a quello di un collega bresciano o trevigiano, e viceversa. Ma se dicesse questo perderebbe d’incanto gran parte dell’appeal che oggi esercita soprattutto sui ceti popolari del Nord. Siamo certi che gli imprenditori di simpatie leghiste staranno già provvedendo a informare Bossi e i suoi uomini che tornare indietro nel tempo di mezzo secolo non è la ricetta migliore per rilanciare produttività e competitività padane e quindi i salari, nel lungo periodo.

Se l’obiettivo è, invece, quello più realistico di aumentare i redditi dopo le imposte, in linea teorica uno strumento esiste: agire su deduzioni dall’imponibile e/o detrazioni d’imposta. La prima è ammessa per oneri sostenuti dal contribuente nel suo interesse, tra i quali i contributi a forme pensionistiche complementari. La detrazione d’imposta riguarda invece gli importi che il contribuente ha diritto di sottrarre dall’imposta lorda. In particolare spettano ai contribuenti che hanno carichi di famiglia o posseggono redditi di lavoro dipendente, pensione, lavoro autonomo o impresa minore, e realizzano quindi una discriminazione qualitativa dei redditi. Ecco, forse i leghisti puntano a istituire un’ulteriore detrazione d’imposta, legata al potere d’acquisto territoriale. In questo caso, resta il solito problema: come finanziare questo costo, ammesso e non concesso che ciò possa essere politicamente sdoganabile?

Indurre la Lega a spiegarsi, anziché lanciare facili slogan, sarebbe già un significativo passo avanti.

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