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 Home page > Tribuna Libera > Friuli, 6 maggio 1976: terremoto in Friuli

Friuli, 6 maggio 1976: terremoto in Friuli

In questo stesso giorno, 43 anni fa, alle 21, la terra in Friuli iniziò a tremare. Lo fece per 59 secondi, un'eternità per un terremoto e per le costruzioni, sollecitate a resistere, per quanto possibile. In Friuli la maggior parte degli edifici si arrese.

990 morti. Una cifra spaventosa. Non c'è stata famiglia o gruppi di alunni, operai, impiegati, amici che il giorno dopo non piangessero una o più vittime. Alcuni di questi lutti avevano dettagli, raccontati dai friulani stessi, che rasentavano il coraggio, il destino, il fato, sino quasi a trasformare il dramma in un'altra cosa. Un neonato, salvato fra le rovine del centro storico di Gemona, era abbracciato ancora fra le braccia della madre che sporgevano fra le rovine. In una soffitta della stessa Gemona un gruppo di adolescenti aveva appena iniziato una festa. Il terremoto li sorprese chi con il bicchiere in mano, chi abbracciato alla ragazza del cuore, altri a discutere di calcio. Il palazzo si accartocciò come un foglio di carta, ma il sottotetto resse ed al termine delle scosse i ragazzi uscirono dagli abbaini, illesi. Giancarlo, divenuto poi nei mesi un caro amico, raccontava che pochi secondi prima della scossa si udì un sordo boato. La famiglia decise di uscire ma mentre lui e la madre tentavano in fretta di mettere la nonna sulla sedia a rotelle, iniziò il sisma. La sorella, più giovane, scappò fuori dalla casa mentre lui e la madre restarono dentro, insieme alla nonna. La casa resse, loro erano salvi. Giancarlo uscì a cercare la sorella. La trovò, a qualche decina di metri da casa, sotto un piccolo muretto di pietre. Una di queste l'aveva uccisa, frantumandogli la testa.

Io, 20 anni sulle spalle, la scuola finita, una cartolina di precetto che minacciava la chiamata alla leva, decisi che le mie vacanze le avrei passate là, cercando di dare una mano. Arrivai il 10 agosto e mi dirottarono a Campagnole di Gemona, borgata contadina e nella valle. A Stalis, borgo storico e centrale, raso al suolo, mandavano i più esperti, con più maturità e forza d'animo del sottoscritto.
 

Agli inesperti come me toccavano i lavori di manovalanza e ogni cosa sorgesse anche come idea spontanea, sempre che fosse utile. Insieme ad alcuni studenti organizzammo un piccolo campo in un’area costruttiva inutilizzata, accogliendo in una specie di doposcuola i bambini. Alcuni erano riusciti, o forse solo in parte,a dimenticare quella tragica notte e tentavano con forza di ritrovare una normalità nella vita. Altri invece erano ancora vittime di quel sisma che si abbatteva su di loro come un flagello appena scattava un particolare interruttore che accendesse quel ricordo. Per Andrea bastava una serranda che si chiudesse, una portiera sbattuta con forza, un camion carico di ferro che incappava in una buca per vederlo immediatamente sprofondare in un mutismo assoluto, anche per diverse ore. 
 

La manovalanza consisteva spesso nel recuperare fra le rovine ricordi, oggetti o anche solo pezzi di legno, utili alle stufe visto l'approssimarsi dell'inverno. Ricordi tantissimi, alcuni drammatici, altri splendidi. A settembre, il mese della vendemmia, vissi uno di questi momenti. Tutti avevano qualche filare, chi più e chi meno, e tutti avevano qualcosa da raccogliere. A turno le famiglie della borgata si trovavano alle 5 del mattino nel cortile di una di queste. Le donne in cucina e gli uomini (anche i ragazzi come noi ed i bambini appena grandi) fra i filari, a raccogliere grappoli, sino all'ultimo. A pranzo tutti insieme, in tavolate immense, alla sera cena e festa. All'indomani tutti pronti, in un altro cortile.
Rimasi sino all'11 settembre, quando ci furono nuove e violenti scosse nel tardo pomeriggio. Al mattino i friulani spesso mi chiedevano se avessi sentito quella piccola scossa nella notte. Io non avevo sentito nulla, ed ero curioso. Capii solo quel giorno quanto fosse stupida la mia curiosità.

 

Mai chiedere a chi ha provato cosa sia un terremoto: impossibile da descrivere. Paura? tanta, certo. Di morire? Ovvio. La prima cosa che tenti di fare? Restare in piedi. Non è un pensiero lucido e ragionato, è istintivo, infantile, forse primitivo: cercare di mantenere la posizione più naturale dell'uomo, quella eretta. Non sempre questa scelta è giusta: quel giorno, dopo la prima scossa, lasciai gli amici al campo con i bambini mentre correvo nella borgata cercando di rendermi conto della situazione. Incontrai due sorelle che piangevano davanti alla loro casa. Una nuova scossa ci sorprese in mezzo alla strada. Ci abbracciammo, cercando insieme di restare in piedi. Alla fine della scossa eravamo arrivati, in piedi, sotto un muro pericolante dall'altro lato della strada.

Ritornai a casa, ma mercoledì 15 settembre due nuove scosse, brevi ma fortissime (molti dal letto furono scagliati in terra) mi spinsero a rimettermi in viaggio ed arrivai di nuovo a Gemona, dove rimasi sino alla fine di maggio, quando mia madre mi dava ormai per disperso (telefonare costava e non era semplice scroccare un paio di minuti). Tornai in Friuli un paio di volte in visita; una, la seconda, con mia moglie, durante il viaggio di nozze.
Poi smisi. Il presente uccide i ricordi, trasformandoli in realtà, ed io volevo che i miei ricordi vivessero.

Altra gente, altri tempi, altra vita, altri modi di vivere. Ed io, piccolo ed umile, in mezzo a loro, giganti nel dolore.

(Foto: YukioSanjo/Wikipedia)

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