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Fondamentalismo: in difesa del secolarismo

La polarizzazione basata su una politica dell’identità religiosa appare la più pericolosa per le democrazie.

Consideriamo gli avvenimenti di metà marzo 2019. Prima un terribile attentato da parte di un suprematista bianco contro due moschee a Christchurch, in Nuova Zelanda, che ha mietuto dozzine di vittime. Successivamente un attacco, forse in rappresaglia al primo, contro i passeggeri di un tram a Utrecht, nei Paesi Bassi, da parte di un uomo presumibilmente legato all’ISIS, che ha ucciso almeno tre persone. Questi eventi sembrano provare l’esistenza di una guerra, non dichiarata, di religioni. Infine, i commenti del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan, che ha fatto infuriare le autorità di Nuova Zelanda e Australia evocando la vittoria degli ottomani contro l’invasione di Gallipoli guidata dai britannici durante la prima guerra mondiale, e suggerendo nei suoi comizi politici che quella in corso sia effettivamente una guerra tra religioni. Sebbene mitigate da un suo stesso articolo ospitato dal Washington Post e in seguito ritrattatesmentite, le dichiarazioni di Erdoğan tuttavia ci obbligano a chiederci come vadano interpretati, nel ventunesimo secolo, questi echi di un lontano passato: l’era premoderna delle guerre religiose.

La guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi, secondo il celebre detto di Carl von Clausewitz. Se per politica, nel nostro contesto, intendiamo negoziato, compromesso e do ut des tra Stati, potremmo generalizzare questo motto ad altre aree della vita socio-politica ed osservare che gli attori sociali e politici finiscono per ricorrere alla violenza quando fallisce la comunicazione verbale. Che può fallire perché una frase non è stata udita, o è stata ignorata, oppure soppressa, o semplicemente rifiutata perché inaccettabile. Un atto di violenza potrebbe essere l’ultima risorsa in una ricerca di giustizia, oppure il tentativo di sopprimere una richiesta di giustizia. Può rappresentare ribellione, o semplicemente oppressione.

Sebbene alcuni potrebbero simpatizzare per quegli atti di violenza che appaiono essere finalizzati a perseguire la giustizia, la “causa ultima” non sempre è facile da individuare. Ad ogni modo, nelle società democratiche, si rifiuta l’uso della violenza come mezzo di comunicazione e si promuovono mezzi pacifici di negoziato e compromesso. Inoltre, che la violenza sia motivata dal sostegno o, viceversa, dalla negazione di un qualche senso di giustizia, i suoi bersagli più facili sono le persone povere, vulnerabili e indifese. L’aumento della violenza negli affari correnti, di conseguenza, è un’indicazione della crisi, se non del collasso imminente, della civiltà democratica. La democrazia può sopravvivere solo se un governo ha stabilito un’egemonia morale. Le alternative sono forme di potere assolutistiche, oppure il caos.

L’ascesa della “politica dell’identità”, al volgere del secolo, fu inizialmente salutata come una modalità della lotta democratica per il diritto al “riconoscimento”. D’altra parte si è rapidamente trasformata in ciò che Tariq Ali ha chiamato lo “scontro tra fondamentalismi”. L’identità può essere legata a diversi marcatori, che includono innanzitutto (ma non solo) la razza, il genere, l’etnia e la religione; ma il termine “fondamentalismo” si riferisce in primo luogo e soprattutto alla religione. E mentre tutte queste caratteristiche delineano divisioni potenzialmente difficili da superare, la religione si situa in una posizione peculiare. Certamente si tratta di indicatori che riguardano tutti la dignità, sia individuale che collettiva; ma la divisione secondo religione tende ad essere la meno flessibile, e perciò potenzialmente la più fondamentalista.

La ragione è semplice. Per l’individuo, la classificazione in termini di razza, genere ed etnia ha fondamento nella biologia, sebbene le categorie in sé siano costruite socialmente e politicamente. Una persona può non cambiare il proprio sesso biologico, o il proprio colore della pelle, ma la società è in grado di creare assetti diversi per i ruoli di genere e le relazioni razziali. La religione è del tutto differente, sebbene spesso sia anch’essa un’identità culturale ereditata e/o attribuita. Perché da un lato essa è, tra le categorie di identità sociale, la più facilmente modificabile, mentre dall’altro è una questione di fede e di conseguenza, per il fedele, un marchio che è impresso nel suo stile di vita, nella sua visione del mondo, nelle sue abitudini quotidiane e, fatto più destabilizzante per la democrazia, nelle sue idee e ideologie politiche.

Come può la democrazia, quale sistema di negoziato e compromesso, essere praticata quando esistono molteplici comunità religiose potenzialmente confliggenti in termini di idee, ideologie, dottrine e dogmi? La soluzione classica, nel mondo moderno, si è trovata nel principio del “secolarismo”: separare la politica dalla religione. Questo principio può essere applicato in una varietà di configurazioni; ma, in ogni caso, strumentalizzare la religione per fini politici è un pendio scivoloso, dato che spesso (e forse inevitabilmente) degenera in atti di violenza che provocano altra violenza, non importa se perpetrati da chi proclama di ribellarsi a un’ingiustizia, o da chi si ritiene tutore della legge ed dell’ordine. La polarizzazione basata su una politica dell’identità religiosa appare la più pericolosa per le democrazie, semplicemente perché il credo non può essere oggetto di negoziato né di compromesso. La politica deve essere lasciata libera dalla religione.

Haldun Gülalp

Apparso originariamente su openDemocracy. Traduzione di Giorgio Maone.

Foto:JCWilmore/Wikipedia

 

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