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Follia, società, malattia

“Prima che la follia fosse individuata dalla razionalità borghese come malattia la sua voce era confusa con l’indigenza, la fame, la delinquenza: un insieme indistinto di bisogni su cui si è risposto frantumando la globalità della domanda, essenzialmente rappresentata dalla miseria”.

Questo sosteneva lo psichiatra Franco Basaglia negli anni della “rivoluzione antiistituzionale”, e questo lo verifichiamo quotidianamente quando il nostro agire di operatori si trova ad affrontare il disagio psichiatrico come disagio sociale, il disagio di una intera comunità. La povertà sembra così uno dei principali predittori di malattia mentale! Anche se sarebbe più corretto parlare di persone povere: il problema esiste infatti anche a livello di fasce di popolazione a basso reddito all’interno di paesi ad alto reddito medio.

In breve possiamo affermare che per alcune malattie mentali la povertà diventa un fattore determinante per l’insorgenza, mentre per altre ne influenza il decorso, o meglio le probabilità e i tempi di guarigione. Ad esempio numerosi studi della recente letteratura internazionale hanno documentato l’alto tasso di problemi mentali nella popolazione senza fissa dimora.

La malattia viene così spesso accompagnata da interrogativi vitali ed inquietanti. Non c’è esperienza umana in sé piacevole e positiva. Tutte le esperienze possono essere porte per entrare in paradiso od essere scaraventati all’inferno. Le stesse esperienze, in momenti diversi della nostra vita, possono esaltarci o deprimerci. Possiamo allo stesso modo, stare bene con noi stessi ed essere per questo perseguitati da altri. Soffrire le pene dell’inferno a causa della nostra felicità e pienezza di vivere. Essere soli in mezzo a tante persone. La solitudine non è mia, tua, sua...

Si tratta di solitudine dell’io, del tu, del lui, quali aspetti dell’oggetto e non del soggetto: la boa dei non abbastanza disperati in materia di vita. La psichiatria è disciplina medica che si occupa della diagnosi, della comprensione e delle strategie terapeutiche necessarie per avvicinare ciò che convenzionalmente chiamiamo "disturbo psichico". Ma essa non può sfuggire a certe scelte etiche che richiamano i grandi temi del senso della vita, della libertà, della responsabilità verso le esistenze fragili ed emarginate.

La psichiatria ha a che fare soprattutto con la cura, ma la cura non può essere soltanto farmacologica: è anche psicologica e sociale e dipende soprattutto dalla capacità di ascoltare, per cogliere quel colloquio interiore che ognuno di noi intrattiene con le voci e i silenzi della propria anima, anche quando ci si trova persi nelle pieghe più profonde della sofferenza psichica.

Risulta così evidente la necessità di dotarsi di nuovi strumenti culturali ed epistemologici, stante il perpetuarsi di un vuoto non solamente interpretativo ma anche propriamente operativo per ciò che riguarda la modalità di utilizzo di esperienza della sofferenza. L’esperienza di lavoro nei servizi territoriali fa incontrare quotidianamente non solo i casi cosiddetti più gravi, affetti da problematiche psicologiche/psichiatriche incompatibili con una normale vita di relazioni familiari, sociali, lavorative ecc., ma anche persone con disagi più lievi, persone che hanno famiglia, lavoro, cultura. Diventa necessario essere flessibili ed adattabili, non per proprio piacere, ma per la sopravvivenza del proprio impiego.

Quando un lavoratore, per motivi che rispondono esclusivamente a leggi produttive o di mercato, è declassato o non si vede riconosciuto nelle proprie attitudini, subisce, sul piano psicologico, nella sua configurazione identitaria, un vero e proprio trauma, spesso sottovalutato se non del tutto ignorato: l’identificazione lavorativa, l’autostima, il sistema delle sue motivazioni, l’organizzazione delle sue personali sicurezze vengono meno. Ciò crea una “situazione sociale marcata dal malessere del lavoro, dal timore di perdere il proprio posto di lavoro e non poter tornare ad avere più una vita sociale, e di dover impegnare la vita solo nel lavoro e per il lavoro, con l’angoscia legata alla coscienza di un’evoluzione tecnologica che non risolve le necessità sociali. È un processo che rende precario tutto il vivere sociale.”

Le sofferenze che accompagnano la malattia sono in parte una risposta alla malattia stessa, che, infatti, può causare paura, disperazione, senso di spossatezza, angoscia nei confronti del futuro e un senso profondo di inutilità e di impotenza. A questi stati occorre contrapporre un’amorosa sollecitudine, empatia e, se possibile, conforto e consiglio. Ma la sofferenza a volte può sollevare interrogativi sul significato della vita, del bene e del male, nonché del destino della persona - interrogativi comunemente considerati spirituali o filosofici, non medici.

Perché sono malato? Perché mi tocca soffrire? Che scopo ha il mio dolore? Perché tutto diventa più difficile? Perché proprio io?
La medicina da sola non è in grado di proporre nessuna risposta a queste domande, esse non rientrano nelle sue competenze. Tuttavia, dai medici e dai terapeuti, in quanto esseri umani, ci si aspetta una risposta. A questo punto chi si occupa di cura dovrà fare appello alla propria esperienza e alla propria visione del mondo, e considerarsi semplicemente un essere umano accanto a un altro essere umano, che gli chiede non solo competenze, ma anche comprensione e solidarietà.


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