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Fenomenologia del renzista

 
In questi giorni, sui social network e nella vita reale, accade un fenomeno tanto singolare quanto interessante: molte persone, altrimenti disincantate e moderate nelle loro modalità espressive, diventano qualcosa di molto simile a dei troll, di fronte a critiche rivolte al premier, Matteo Renzi. In alcuni casi, per virulenza, i renzisti (che sono l’evoluzione militante dei renziani) sembrano sinistramente simili ai grillini. Cosa vi sia, alla base di tale mutazione, possiamo solo congetturarlo.

È verosimile che, alla radice di tali comportamenti, vi sia l’ansia di non vedere sporcata la narrativa della “terra promessa”, dopo questa interminabile traversata del deserto, costellata di miraggi. Il renzista medio è un riformista moderato (o più probabilmente un moderato riformista), ha una mappa di valori fatta di blando comunitarismo e favorisce l’eguaglianza di opportunità (ma non di esiti); come la quasi totalità della popolazione italiana ha maturato una profonda insofferenza per burocrazia e strapotere sindacale, vero o presunto.

Molti renzisti vocali e vocianti sono di estrazione borghese, vengono dal mondo delle professioni e dell’impresa, in una precedente era geologica avevano votato per Berlusconi, salvo poi ritrarsi delusi di fronte alle fiabe del Cav. Rimasti politicamente orfani, molti di loro hanno messo il voto in freezer, altri si sono avvicinati al solito forno centrista da cui periodicamente escono figure decrepitamente nuove. Il renzista non ama il millenarismo grillino, quello che promette un welfare paradisiaco ma solo dopo aver distrutto il paese, una sorta di premio dell’aldilà. A ben vedere, il grillismo è anche agli antipodi del berlusconismo, con la sua cupezza e la sua pulsione palingenetica che è soprattutto irreversibile cupio dissolvi.

È quindi inevitabile che il renzismo si ponga come nemico esistenziale del grillismo, soprattutto quando si prefigge di cambiare il sistema dall’interno e senza distruzioni, richiamando il senso di comunità degli italiani, reale o immaginario che sia. Eppure, malgrado una radice politica chiaramente moderata, i renzisti tendono vieppiù ad assumere atteggiamenti molto aggressivi nei confronti di chiunque osi dubitare della predicazione del Leader, spingendosi ad accusare i miscredenti di disfattismo, accusa che è un evergreen dei Ventenni italiani: quelli di nonno Benito, di zio Bettino e di papà Silvio (corsi e ricorsi). Forse questo deriva dall’avere interiorizzato il convincimento che, se Renzi fallisse, questo paese sarebbe spacciato.

Non è chiaro da cosa derivi tale convincimento: forse dal dato anagrafico del premier, che appare la suggestione della rottura definitiva col passato. Questa è tuttavia una suggestione alquanto fallace: non è la carta d’identità né l’uso di codici di comunicazione “nuovi” (o meglio, “diversi”) a determinare la discontinuità epocale di una comunità nazionale e del suo destino.

Il renzista diventa aggressivo perché, un attimo dopo aver creduto di trovare sulla propria strada l’uomo del Cambiamento, si accorge che il sistema-Italia ha e continua ad avere una formidabile inerzia e che le “ricette” del Leader sono simili in un modo inquietante a quelle dei predecessori. Pensate al “decreto-oraics” ed alla sua contabilità creativa ed oltraggiosa: se simili artifici fossero stati proposti da Berlusconi e Tremonti, ora avremmo i girotondi per le strade (in realtà, a strillare di più sono proprio gli ex campioni di contabilità creativa, ora detronizzati). Ma gli italiani “moderati e fattivi” sono stanchi, non hanno più tempo per aspettare né per ascoltare i sofismi contabili dei puristi della realtà.

E quindi sì, ecco che il Jobs Act creerà lavoro, tanto lavoro; che è giusto che le banche paghino, perché ne hanno fatte troppe: ma non vogliamo ucciderle bensì solo tosarle, citando la saggezza socialdemocratica dei tempi che furono; vogliamo che i “grandi speculatori paghino”, e pazienza che alla fine pagheremo noi depositanti e correntisti e non i grandi redditieri che posseggono milioni di euro in titoli di stato; vogliamo che la Ue ci ascolti, perché noi siamo l’Italia, paese fondatore dello spirito eurocomunitario, non una Repubblica delle Banane qualsiasi. Quindi non ci facciano girare le palle o faremo saltare il banco, sforando i limiti di deficit; anzi no, resteremo nei parametri ma ci servirà più tempo, perché “il momento è eccezionale”; e ancora, paghino i superburocrati col loro stipendio, come giusto che sia in un paese che vive di rendite parassitarie; ma paghino anche i travet, che godono di troppo spazio vitale nei loro uffici.

La rivoluzione dell’Open Data servirà moltissimo ma prima dovremo mandarla a regime, e scopriremo che gli slogan non servono, se il sistema ti gioca contro o semplicemente non è pronto. E ancora: basta tagli lineari ma le Regioni, obbligate ad agire “entro sessanta giorni”, metteranno fatalmente mano ai ticket sulla Sanità ed assimilati. Renzi riuscirà a scollinare alla grande le elezioni europee: l’assenteismo monstre alle urne non farà che ingrandirne l’ombra proiettata sulla parete della caverna. Dopo di che, saremo in mare aperto. Poi subentrerà la fase del “lasciatelo lavorare” perché lui non è Berlusconi, sia chiaro. Alla fine, i maggiori nemici dell’Italia sono gli italiani. Il problema è che Renzi rischia di rivelarsi un prodotto tipico italiano, pur se in una confezione mai giunta prima sugli scaffali del nostro supermercato politico.

Quanto all’umile imbrattapixel di questo sito, prendete fiato: qui si sposta solo un voto e a volte manco quello, causa ignavia elettorale. Però vi capisco: deve essere dura, trovarsi di fronte qualcuno che non si può rinchiudere in tassonomie e riti tribali di appartenenza. Durissima, a volte. Se può esservi utile, tuttavia, sappiate che, a fronte di risultati e proposte razionali ed efficaci, qui si cambierà idea. Proprio come Renzi, nella sua irresistibile ascesa verso il momento della verità.

 

Foto: Palazzo Chigi/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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