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Fatevi gli Enea vostri

Una donna decide di lasciare il proprio neonato, in maniera anonima, presso la clinica Mangiagalli di Milano. Esercita un suo diritto, ma si scatena la polemica: in Italia questa scelta è ancora oggetto di giudizi e condanne. Affronta il tema Adele Orioli sul numero 3/23 di Nessun Dogma

 

Ha tenuto per giorni l’attenzione dei media la storia di Enea, nome purtroppo per nulla di fantasia, neonato di pochi giorni che, accompagnato da una lettera prontamente e integralmente riportata in ogni notiziario, è stato lasciato nella versione moderna della ruota degli esposti presente presso la celebre clinica Mangiagalli di Milano.

Un sofisticato meccanismo, questo, che garantisce l’anonimato e al contempo un ambiente protetto e riscaldato con il pronto intervento del personale sanitario e che dalla sua istituzione, nel 2006, è stato utilizzato ben tre volte. In tema di tagli alla sanità forse manca un filo di perequazione, ma tralasciamo l’aspetto economico di una simile operazione per soffermarci piuttosto sul concetto di anonimato.

Perché, complice forse la coincidenza del ritrovamento con le festività pasquali, che assomigliano a quelle dicembrine per l’imperativo fatuo dell’essere tutti più buoni, una vicenda che buon senso, legislazione e (ma perché no?) anche umana pietas nel senso più alto – e originale – del termine (comprensione e non commiserazione) avrebbero richiesto di far passare sotto completo silenzio, è stata sviscerata in tutti i possibili anfratti con ampie code di appelli, strumentalizzazioni, polemiche.

Si parte ovviamente dalla gogna mediatica della madre, questa sì ancora (speriamo per sempre, salvo sua volontà) anonima, rea di aver abbandonato la propria creatura. Gogna poi, per drammaticamente comprensibile ironia, messa spesso in atto dalle stesse persone che blaterano contro il diritto di aborto «perché esiste l’adozione».

Al di là che anche semanticamente è difficile accusare di abbandono chi deposita il pargolo in una sede così appositamente e tecnologicamente preposta, la donna che ha partorito Enea, lungi dall’essere colpevole di alcunché, ha anzi usufruito di un suo diritto, pienamente riconosciuto e regolamentato dal nostro ordinamento (decreto del presidente della Repubblica 396/2000), quello di partorire in anonimato, in ospedale.

Diritto esercitato secondo le stime da circa trecento donne ogni anno, in maggioranza straniere, per un totale approssimativo che ammonta allo 0,07% delle nascite e che, a naso, questa storia spiattellata in ogni dove certo non contribuirà ad aumentare.

Dopo la gogna, gli accorati appelli, dal comico Ezio Greggio in testa, volti a ottenere un ripensamento della madre che, con incrollabile certezza etero decisa, per gli opinionisti di turno è sicuramente mossa solo da difficoltà economiche, altrimenti di figli magari ne farebbe pure altri tre.

Convinzione peraltro questa assai diffusa, che qualsivoglia rinuncia alla maternità, ab origine o ex post, sia dovuta al solo e semplice soldo, soprattutto in questi tempi di spinta sul natalismo nei quali si invita schizofrenicamente la donna a essere “molto” madre e “molto” lavoratrice al tempo stesso, in un moderno sincretismo tra il coniglio, l’operaio di Chaplin e il polipo. Al sincretismo di cui sopra aggiungiamo il distributore automatico, basta inserire il gettone et voilà tutte a sfornare pupi.

Ma torniamo a Enea che, grazie non al cielo ma sempre alla nostra, seppur carente comunque in questo efficace legislazione, cambierà nome appena raggiungerà la sua nuova (prima e si spera unica, più che nuova) famiglia.

Non avrà modo di risalire alla madre biologica, perché anche se la legge 149/2001 ha introdotto il diritto dell’adottato di accedere, a certe condizioni e con certe procedure, alle informazioni concernenti l’identità dei suoi genitori biologici, questo accesso non è consentito se l’adottato non è stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale.

E invece di discettare sul perché o sul percome, invece di cucire abiti sulla pelle e con la pelle di altri, dovremmo semplicemente far scendere un po’ di silenzio su una storia che rischia per l’ennesima volta di offuscare e appannare quello che è un diritto di ogni donna.

Il diritto di scegliere sul proprio corpo, il diritto di essere o di non essere madre, il diritto di usufruire di tutti gli strumenti che un ordinamento civile dovrebbe mettere sempre a disposizione, senza ritrovare la propria storia rimbalzata ovunque come parabola moralisticheggiante della settimana. Perché siamo tutti bravi, con gli Enea degli altri.

Adele Orioli


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