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Essere religiosi oggi da due punti di vista: il popolare e l’intellettuale

In epoca moderna non c’è forse mai stata piena convergenza di vedute sulla dimensione religiosa tra la gente comune da una parte e le élite politiche e culturali dall’altra. Più volte abbiamo infatti avuto modo di sottolineare l’evidente scollatura tra il processo di secolarizzazione delle masse, lento ma continuo, che tendono sempre più a marginalizzare la religiosità, e lo spiccato clericalismo delle istituzioni. 

Oggi. In altri momenti vi sono però stati equilibri diversi. L’illuminismo si è sviluppato in ambienti culturali, ma in una società caratterizzata di forte religiosità. La fine dello Stato della Chiesa è stata portata a compimento grazie a una classe politica poco disposta a chinare il capo di fronte alle autorità ecclesiastiche, ma a un’altra classe politica dittatoriale si deve la restaurazione del potere papale poco più di mezzo secolo dopo. Nella seconda parte del secolo scorso, poi, se la maggior parte degli italiani affollava le chiese la domenica, un’altra maggioranza partecipava alla rivoluzione laica che ha fatto diventare realtà diritti come il divorzio e l’aborto.

Tornando a oggi, la curva della religiosità viene ben fotografata da sociologi come Franco Garelli. Lo aveva fatto quattro anni focalizzandosi in particolare sui giovani; il libro Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? indagava infatti i giovani concludendo che a loro non importa granché della religione, e che quindi in prospettiva le religioni sono destinate a perdere terreno. Lo ha fatto nuovamente oggi con Gente di poca fede, nel quale analizza tutte le fasce di età dal punto di vista della “qualità” della religiosità: «Mentre venti-trenta anni fa la fede in Dio era una certezza per oltre il 50% della popolazione» scrive Garelli, «oggi questa convinzione assoluta coinvolge poco più di un terzo delle persone; a fronte di quasi un 40% di soggetti che esprimono un credere dubbioso o precario». In altre parole, se prima in tanti credevano senza se e senza ma, che è poi la caratteristica propria del credere, oggi la maggioranza dei credenti lo fa “con moderazione”. Ci crede ma non del tutto, quasi come con gli oroscopi.

E pensare che dagli organi di informazione è invece una continua esaltazione della religiosità, a quanto pare senza troppo successo. Dalle colonne del Corriere della Sera, per esempio, Ernesto Galli della Loggia compie una disamina della Chiesa bergogliana dipingendola come un movimento che ha un po’ accantonato l’aspetto squisitamente religioso della sua azione in favore di un approccio ideologico, che guarda alle masse preoccupandosi più di come vivono che di come pregano. Per Galli della Loggia ciò sarebbe un male, e cerca di dimostrarlo con qualche esempio discutibile, ma come anche Garelli osserva è questa la Chiesa che riesce a fare presa su quei “credenti ma non troppo” di cui abbiamo appena parlato. Il bergoglismo cattura la loro attenzione forse proprio perché sembra meno religione e più terzo settore. Sembra, appunto. Perché di fatto poi la Chiesa non disdegna affatto di ribadire i suoi dogmi e le sue verità non negoziabili su argomenti vari, dall’omosessualità all’aborto passando per il fine vita e quant’altro, basta leggere tutto quello che dice il papa – e di certo non si fatica a trovarne traccia. Semplicemente lo fa in modo più subdolo.

Michele Serra su la Repubblica si cimenta invece, a proposito del caso di Silvia Aisha Romano, in una ridefinizione arbitraria dell’agnosticismo. Il vantaggio dell’agnostico, per Serra, è «sapere che l’apostasia non spergiura alcun Dio». Mica solo dell’agnostico: qualunque non credente non ha nulla di cui fare apostasia, non è che esista una fede che predica l’incredulità e dalla quale si può decidere di uscire. Ma questo non ha realmente importanza, le parti più discutibili vengono dopo, dove Serra dichiara di sentirsi «cattolico nelle chiese, musulmano sulla piazza di Isfahan, ortodosso ascoltando la messa cantata in San Maurizio a Milano, induista mettendo piede nel Gange e buddista nelle nevi del Tibet». In sostanza l’agnosticismo sarebbe quindi per Serra un’esaltazione di tutte le manifestazioni fideistiche. Tutto è bello finché è religioso e mi scuserete se io non ho questo dono. Discutibile anche la chiusura di Serra a proposito dei monaci: «loro sì, che si assomigliano tutti, e con qualunque tonaca addosso pregano, pensano e lavorano con l’umiltà dei ricercatori, non con l’arroganza dei portatori di Verità». Amen.

Di certo non sono i non credenti a pretendere di portare la Verità con la maiuscola, su questo Serra converrà. Sono i credenti a farlo. Compresi quei credenti che bollano come apostata chiunque decida di abbandonare la loro religione, e che nella maggior parte dei casi non ha mai richiesto di esservi affiliato. Sono quei cattolici, musulmani e ortodossi in cui Serra in qualche modo si identifica.

Non sono i non credenti a impedire a chi vuole di sentirsi cattolico, musulmano, ortodosso, induista o buddista in qualunque posto. Sono i credenti a farlo. Agnostici, atei e quasi tutti i non credenti chiedono semmai che a nessuno venga impedito di vivere la dimensione spirituale che vuole, ma al tempo stesso che non lo faccia richiedendo privilegi. Sono critici verso chi questi privilegi li rivendica, in modo diretto o anche solo parlando per mezze verità. E questo, ahimè, è anche la Repubblica, il giornale su cui scrive Serra, a farlo di tanto in tanto. Come nel recente articolo intitolato Vaticano, ogni anno 17 milioni di euro di tasse allo Stato italiano. Non serve nemmeno commentare un titolo che parla di una multinazionale che dichiara di pagare le tasse di una piccola impresa.

Massimo Maiurana

 

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