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Essere donna, e magari anche atea, sotto un clericalismo misogino

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Uno dei parametri più indicativi per definire il livello di secolarizzazione di una società è senza dubbio il ruolo sociale della donna. Società profondamente religiose tendono generalmente a relegare le donne a ruoli di subalternità nei confronti degli uomini, quando non di vera e propria proprietà, con il pretesto che ciò viene insegnato dai testi sacri, che così è sempre stato e deve quindi continuare a essere, che per il corretto funzionamento della società è necessario che ognuno si adegui al proprio ruolo, e così via. Per contro, più la società si evolve in senso laico e più le donne possono rivendicare e ottenere il riconoscimento di diritti fondamentali. O viceversa. È quello che del resto è accaduto un po’ in tutto l’occidente nell’ultimo secolo, Italia compresa, a partire dal suffragio universale e passando per le storiche battaglie su aborto e divorzio. Sempre e comunque con i clericali a ribadire con fermezza la propria opposizione.

Donne in piazza e nei cortei, dunque, promotrici di un’evoluzione sociale in senso laico che inevitabilmente investe anche le religioni costringendole ad adeguarsi, per quanto ciò sia possibile, al mondo che si cerca di costruire. Perché laico, ricordiamolo, non vuol dire antireligioso ma neutrale rispetto a qualunque filosofia e visione del mondo, senza deroghe o privilegi di sorta per nessuna confessione, quindi tutto ciò che si chiede a qualunque religione è il semplice rispetto per gli altri. È possibile che un simile processo possa essere innescato anche nei paesi dove più sono radicate le tradizioni religiose, come quelli arabi? Certamente sì, possibile lo è. Facile probabilmente no, e di sicuro non porterebbe a risultati concreti in breve tempo, ma può essere innescato e potrebbe perfino esserlo già, visti alcuni timidi segnali degli ultimi tempi.

Penso ad esempio al caso della giornalista libanese Rima Karaki, che ha giustamente fatto il giro del mondo. Per la concezione islamica le donne non hanno nessun diritto di interrompere gli uomini che parlano, si tratta di un comportamento inammissibile. Karaki però lo ha fatto in diretta televisiva, con tanto di velo a coprirle la testa, in risposta allo studioso islamista al-Seba’i invitato in collegamento da Londra, dove si trova in esilio, per parlare del motivo per cui alcuni europei decidono di andare a combattere per l’Isis. L’invitato non ha preso bene l’interruzione e ha reagito duramente ordinando alla giornalista di stare zitta, e per tutta risposta Karaki ha subito chiuso il collegamento. Ma quello che è ancora più sorprendente è che lo ha fatto accusando apertamente l’interlocutore di mancarle di rispetto, cosa che definire inusuale in un contesto islamico sarebbe riduttivo. Certo, il tutto non è avvenuto nella teocratica Arabia Saudita ma nel multiculturale Libano, ma da qualche parte bisogna pur iniziare.

 

Sempre libanese, e dichiaratamente atea, è Joumana Haddad. Sembra quasi strano dirlo, eppure in un paese arabo è possibile dichiararsi atee e fare attivismo laico, lottando per i diritti civili e per la liberazione sessuale delle donne. Purtroppo c’è anche la possibilità di essere indesiderate in un altro paese arabo, che è poi quello che è successo recentemente ad Haddad. Nello specifico la scrittrice era stata invitata dalla ministra della Cultura del Bahrein (una donna ministra, aspetto da non sottovalutare) per leggere delle poesie, ma all’iniziativa è seguita la netta presa di posizione di alcuni gruppi islamisti che hanno lanciato una campagna dall’esplicito titolo “In Bahrein gli atei non sono benvenuti”. Non solo, uno sceicco si è perfino spinto a minacciare di morte Haddad qualora fosse entrata in Bahrein, tanto che alla fine il primo ministro ha ceduto e ha emanato un divieto di ingresso in Bahrein per la scrittrice. Secondo il racconto della stessa Haddad ci sono comunque state proteste dalla parte più illuminata della popolazione bahreinita, il che lascia qualche piccola speranza; chissà che la vicenda non faccia riflettere gli arabi più evoluti culturalmente. E chissà che non lo facciano anche le parole di Haddad laddove si rivolge all’islam dicendogli che i suoi nemici sono i fondamentalisti, non sono gli atei. Sono i musulmani che sposano delle bambine, che impongono loro il niqab e che le fanno infibulare, non chi chiede pari diritti e trattamento per le donne.

Di recente anche altrove, ma pur sempre nel mondo arabo, un’altra donna ha osato rispondere a tono alle parole di condanna rivoltele addirittura da un imam. L’attrice pakistana Veena Malik era stata condannata per blasfemia alcuni mesi fa dalla Corte anti terrorismo di Gilgit, una città della regione del Kashmir controllata dal Pakistan ma non parte effettiva dello Stato (la regione è attualmente contesa con l’India), per aver preso parte a uno show contenente riferimenti al matrimonio della figlia di Maometto. La condanna è sostanzialmente inapplicabile in Pakistan per questioni di giurisdizione. Comunque, in una trasmissione Malik è stata contestata da un imam sia per la sua presunta blasfemia che per il modo in cui propone la sua immagine. Ineccepibili gli argomenti usati da Malik per rispondere in modo molto netto, in particolare la contro accusa per averla guardata negli stessi panni da lui criticati e la conseguente richiesta di applicazione della sharia contro l’imam stesso. Un segno dei tempi?

C’è poi chi non ha la possibilità di combattere le proprie battaglie nel paese di origine ma rappresenta comunque un punto di riferimento sia per l’islam moderato che per il resto del mondo, come Taslima Nasreen e Ayaan Hirsi Ali. Hirsi Ali è nata in Somalia da una famiglia islamica ed è stata istruita nelle madrasse, oggi vive in Olanda e lotta per i diritti umani. Per lei una stagione riformatrice dell’islam non solo è possibile ma è necessaria, come scrive anche nel suo ultimo libro intitolato Heretic: Why Islam needs a reformation. In un’intervista pubblicata su The Australian Hirsi Ali spiega che vi sono numerosi pensatori musulmani in tutto il mondo, di cui parla nel suo libro, che auspicano una svolta in senso filosofico dell’islam, basata su quanto ha fatto il profeta nella prima parte della sua opera, quella più pacifista e meno politica. Secondo Hirsi Ali la speranza per il futuro va riposta proprio in coloro i quali vengono considerati eretici e blasfemi verso una confessione che riesce a condizionare il modo di pensare dei suoi adepti al punto da far loro ritenere più importante la futura vita ultraterrena piuttosto che quella terrena. Lei stessa, dice, avrebbe potuto arruolarsi convintamente nell’Isis se fosse rimasta a Mogadiscio e avesse continuato a crescere permeata di quel mondo.

Il futuro è donna è il titolo di una pellicola a sfondo femminista pubblicata da Marco Ferreri ormai trent’anni fa. Oggi potrebbe benissimo essere il titolo della riscossa laicista del mondo arabo, del suo affrancamento da tutti i fondamentalismi, si chiamino questi Isis o Boko Haram, che minacciano non solo gli arabi ma la pace nell’intero pianeta. Perché se si comincia a riconoscere qualche diritto a una delle due metà del mondo si potrebbe poi “rischiare”, si fa per dire, che ci si prenda gusto e che il processo coinvolga in cascata anche le minoranze, a partire da quelle etniche e religiose. Speranza vana e remota? Tanto sperare non costa nulla. È combattere che costa molto.

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

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