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Ernesto de Martino: Etnologia, Impegno Civile e Magia

Nel libro “Ernesto de Martino” (Napoli 1908-Roma 1965) della Carocci Editore (marzo 2008), Pietro Angelini, docente di Antropologia culturale e sincretismi religiosi, ci racconta una breve cronistoria della vita del grande “padre rifondatore” dell’Etnologia in Italia, e dello Storico delle Religioni e della Magia.

Quest’opera non è un’introduzione a “tutto” de Martino, ma vuole prendere in esame i momenti più importanti del lavoro scientifico e dell’impegno civile del “filosofo della cultura”. Si narra anche delle sue particolari e curiose trasformazioni politiche: passa dal Partito Liberalsocialista al Partito d’Azione e poi dal Partito Italiano del Lavoro al Partito Comunista. E questa è una cosa più unica che rara, nel 90% dei casi l’intellettuale percorre la strada inversa. Forse de Martino aveva scambiato la calda positività della solidarietà reale e quotidiana della gente romagnola ed emiliana, tra i comunisti conosciuti durante la resistenza, con la positività astratta, autoritaria, impersonale, fredda, scostante, verbale e sterile dell’ideologia comunista sovietica le cui “malefiche radiazioni” contaminano ancor oggi l’Italia.

Dell’uomo che ha concentrato tutti i suoi studi sui rituali magici del Sud, voglio segnalare l’unico lavoro che ha svolto al Nord, dovuto al suo soggiorno in Romagna e a Reggio Emilia, negli anni della Seconda Guerra Mondiale e della resistenza: “Il folklore progressivo emiliano” (pubblicato su “Emilia”, 21, 1951). Invece l’opera principale che lo ha fatto conoscere è stata “Mondo Magico” e la più venduta “Sud e Magia”: dove parla della “fascinazione”, del mito dello “sguardo invidioso”, del malocchio, della jettatura e del potere dei maghi che ancora oggi riescono a guadagnare molto bene nel Centro e Sud Italia grazie alla superstizione e alla sopravvivenza di culti legati a pratiche pagane che socializzano le pulsioni aggressive e le paure individuali (qui le pratiche scientifiche psicologiche non sono molto conosciute e desiderate e quindi faticano ad agire anche nel 2008).

Ma voglio riportare all’essenza del suo pensiero, che non hai mai ritrattato e che fa ancora molto discutere negli ambienti politici che ha frequentato: “L’etnologia non può non essere europeocentrica, non può cioè, non essere accompagnata dalla coscienza che la civiltà occidentale, maturata attraverso il cristianesimo, la riforma, l’illuminismo e lo storicismo, rappresenta il livello più alto a cui, fin ora, il genere umano è riuscito ad elevarsi”. Ma “l’Europa è una fortezza entro la quale io non debbo rinchiudermi, ad aspettare vilmente l’imminente attacco dei barbari; è una fortezza che io voglio attrezzare di collegamenti sotterranei con l’esterno, per usarli come vie non di fuga, ma di comunicazione verso i popoli più lontani, che proprio grazie alla distanza sono in grado di fornirmi gli strumenti che mi mancano per raggiungere quella consapevolezza storica che mi può salvare. Questo è un compito dell’Etnologia, la scienza che l’Europa ha fondato e che finora ha aggirato il problema del confronto critico tra la propria cultura e le altre… e ha perduto così le migliori occasioni di “catarsi culturale…” Bisognerebbe evitare il relativismo cognitivo e culturale (lo spogliarsi delle proprie categorie e assumere mimeticamente e acriticamente le categorie degli altri), e “uscire dalla storia per contemplare tutte le culture, compresa quella occidentale” (come in fondo teorizzava pure Lévi-Strauss), per riuscire così a tracciare dei nuovi percorsi di crescita culturale: cioè bisogna prendere ad esempio tutto ciò che di meglio ogni cultura possiede, in modo da favorire il maggior rispetto della dignità umana e una migliore sopravvivenza sul pianeta rispettando l’equilibrio ecologico.

Quindi possiamo riconoscere il senso di autocritica di Ernesto de Martino, il quale sa bene che la cultura umana è fatta di un insieme di tradizioni e di cambiamenti, anche se quella occidentale è sicuramente tra le culture a più alto tasso di cambiamento, progressione ed evoluzione. Il giovane de Martino aveva avuto quindi il coraggio e la sfrontatezza di rifondare la disciplina, da solo e senza aver mai fatto l’etnologo, né sul campo né a tavolino.

Anche il parere di Claude Lévi-Strauss non è poi cosi distante: “quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna guardare vicino a se; ma per studiare l’uomo, bisogna imparare a guardare lontano; bisogna anzitutto guardare le differenze, per poter poi scoprire le proprietà. Questo guardare lontano pone l’altro prima dell’io: per riuscire ad accettarsi negli altri, fine che l’etnologia assegna alla conoscenza dell’uomo, occorre anzitutto rifiutarsi in se” (C. Lévi-Strauss, “Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo”, 1962). Per fare comprendere meglio le enormi difficoltà di questo tipo di operazione citerò un piccolo aneddoto. Durante la Seconda Guerra Mondiale il capo di una tribù cannibale (forse della Nuova Guinea) risposte così ad un colonnello americano che aveva richiesto la sua alleanza e collaborazione: “Voi americani siete immorali come i giapponesi, perché uccidete più nemici di quelli che potete mangiare”.

Ma ora esaminiamo una differenza sostanziale tra il pensiero logico individuale occidentale basato sul principio di identità e non contraddizione e quello prelogico di molte culture non occidentali: il “prelogismo” non consiste in un pensiero privo di logica, ma in un processo generale governato da una “legge di partecipazione”, cioè da un “bisogno emotivo” che unifica le rappresentazioni di spazio, tempo, causa, quantità e identità della persona: un indigeno strappato dal suo spazio, che “non respira la sua aria e non beve più la sua acqua”, perde l’interesse per la vita.

Per quanto riguarda le ricerche di de Martino sui fenomeni “magici” di dissociazione della personalità, di allucinazione e di suggestione, possiamo dire che queste realtà straordinarie “sono largamente rappresentate fra i più disagiati e in particolare fra le donne… Poi questi momenti di miseria psicologica intervengono in condizioni di particolare affaticamento fisico… Infine una larga parte dei fenomeni di labilità della persona si è mostrata in stretto rapporto con la frequenza di esperienze traumatiche, cioè dall’imponenza della pressione e dall’intensità di stati esistenziali critici”: le tempeste ormonali della pubertà e della prima adolescenza, la malattia, la fame, il freddo, la morte, la miseria, la solitudine, la disoccupazione, la segregazione, il matrimonio, il parto, ecc.

Ricordiamo inoltre che de Martino, oltre ad essere uno dei pochi studiosi che ha affrontato il tabù della Magia in Europa (questo perché la civiltà occidentale è nata anche grazie alla negazione dei poteri magici), è stato anche uno dei fondatori di una nuova disciplina: l’Etnopsichiatria. La definizione di Magia di de Martino è questa: “è un sistema di garanzie e di compensi per rendere sopportabile una storia che angoscia” (Panorami e spedizioni, Bollati-Boringhieri, 2002, p. 106), un mondo di credenze e rituali storicizzati (a volte mescolate e confuse con alcuni simboli religiosi), che non ha nulla di nobile e di antico. E quindi le genti meridionali dovrebbero trovare il coraggio di “abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia”.

Comunque, ogni credenza, cioè la fede in un potere, che sia scientifico, religioso o naturale come nello sciamanesimo, porta al rafforzamento della coesione individuale e sociale, e quando un evento eccezionale e catastrofico sopraggiunge e mette in crisi queste credenze, si può avere dissociazione psichica, che si diffonde scompensando e mettendo in pericolo l’intera società. Questa situazione può capitare anche nelle società tribali quando viene a mancare lo sciamano, cioè il padroneggiatore di spiriti, e quindi gli spiriti vagherebbero liberi e senza controllo. In realtà lo sciamano, oltre a essere colui che è stato in grado di guarire se stesso, è anche l’uomo che possiede alcune conoscenze naturali e mediche trasmesse nel tempo dagli antenati del suo popolo, che gli consentono di far vivere bene la popolazione nel suo ecosistema, rispettando gli equilibri naturali e ricavando così i maggiori vantaggi possibili per tutti, poiché è diventato come un’inconscia biblioteca generazionale vivente. E le case farmaceutiche, se avessero un “vero senso degli affari”, invece di rubare qualche conoscenza relativa a qualche sostanza derivata da piante e animali alle tribù indigene, pagherebbero profumatamente “tutto questo sapere”, per poter garantire la sopravvivenza di queste tribù e quindi per garantirsi l’accesso a tutto il loro sapere nel tempo.

Comunque i processi di causa ed effetto sociali sono molto circolari… Chi potrebbe rispondere alla seguente domanda: l’Occidente ha creato i diritti dell’uomo o sono stati i diritti dell’uomo che hanno creato l’Occidente?

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