Ergastolo ostativo: lettera aperta a Giovanni Maria Flick

-Lei non è abbastanza arrendevole, a quanto mi hanno detto.
-Chi glielo ha detto? - Chiese K.(…)
-Non mi chieda nomi, per favore, e corregga piuttosto il suo errore, non sia più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna confessare. Faccia la sua confessione, appena può.
Solo dopo se la potrà cavare, solo dopo. (Franz Kafka, Il Processo).
“L’ergastolano ostativo si trova in una condizione differenziata in peius, anche rispetto agli altri ergastolani, finalizzata ad indurlo alla collaborazione. In senso morale, si tratta di una situazione che richiama quella di chi è sottoposto a tortura: ti tolgono qualcosa cui avresti diritto (secondo la legge generale ed i principi costituzionali) e ti sottopongo ad una sofferenza aggiuntiva, che durerà finché non ti deciderai a collaborare”.
Ho paura della notte.
Non posso però fare altro che aspettarla.
Ogni tanto apro la finestra perché mi sembra che manchi l’aria.
E aspetto.
Il cielo è scuro.
E fa un freddo polare.
A quest’ora della giornata l’ergastolano senza scampo si sente abbandonato.
Completamente solo al mondo.
Ed ha il vuoto intorno a sé.
Di solito resto per lunghe ore davanti alla finestra ad aspettare, con la fronte incollata alle sbarre.
E la notte arriva sempre.
Puntuale come la morte.
E questa notte mi sembra che anche le sbarre della cella siano tristi.
Prima di coricarmi a letto, mi lavo i denti.
Poi vesto il pigiama.
Accendo la televisione, navigando alla ricerca di qualcosa d’interessante.
Se non trovo nulla, la spengo.
E accendo la radiolina.
Mi sintonizzo dove c’è un po’ di musica italiana.
Dopo, per aiutare il sonno, faccio due passi in cella.
Cerco di stancare più che posso il mio corpo.
E anche la mia mente, nella speranza di addormentarmi più facilmente.
Di notte è difficile che ti capiti qualcosa.
Pensandoci bene, la cosa più brutta è proprio questa.
La certezza che questa notte non mi capiterà nulla.
Non ci sarà nessun terremoto.
E questo maledetto blindato che ho davanti a me non si spalancherà fino a domani.
Non posso fare altro che stare delle ore alle sbarre della finestra a guardare il buio.
E a seguire i miei sogni.
Ad una certa ora, inizio a passeggiare per la cella come una belva in gabbia.
Prima piano.
Poi sempre più veloce.
Pochi passi avanti.
Poi indietro.
In carcere si cammina molto.
Forse perché non si sa dove andare.
E cosa fare.
Di solito cammino tenendo lo sguardo fisso a terra.
In compagnia della mia malinconia.
In carcere siamo circondati da tante persone.
In realtà, però, siamo soli con noi stessi.
È la solitudine la nostra unica compagnia.
Di giorno cammino da solo.
E di notte invece a braccetto della mia ombra.
Nella mia cella c’è poco spazio per muoversi.
E quasi nulla per respirare.
C’è solo lo spazio per fare tre passi avanti.
E tre indietro.
La mia tomba è corta.
E stretta.
Ha il soffitto basso.
E c’è poco: una branda, un tavolino, uno sgabello e un televisore sopra una mensola.
Con il buio, il cuore degli ergastolani senza scampo diventa pesante.
Smette quasi di vivere.
Non però di far male.
Con il buio mi accorgo maggiormente di quanto mi sento infelice, solo e smarrito.
Così, la morte mi sembra più bella del sole del mattino.
Penso continuamente che sarebbe meglio affrontare l’ergastolo senza scampo da morto, perché ci sono momenti in cui ho la sensazione di essere completamente solo al mondo.
E mi viene il desiderio di aprire il cancello della mia cella da solo.
Per fare uscire almeno il mio cadavere.
La notte è l’ora del dolore.
Dei sogni persi.
È il momento più brutto della giornata.
Ti passano tante cose per la testa.
E con il buio hai meno paura di morire.
Ti viene voglia di lasciarti andare alla corrente del dolore perché non riesci più a trovare nulla per cui valga la pena vivere.
È con il buio che trovi tanti motivi per appenderti alle sbarre della finestra.
Carmelo Musumeci
Padova, Febbraio 2016 www.carmelomusumeci.com
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