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"Elogio della felicità possibile", intervista a Orlando Franceschelli

franceschelli

Orlando Franceschelli, filosofo, insegna Teoria dell’evoluzione e politica presso l’Università La Sapienza. È autore di Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione (2005); La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza (2007) e di Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla (2008), Darwin e l’anima (2009). Lo intervistiamo riguardo il suo ultimo libro Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia (Donzelli).

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Il suo libro ruota intorno al riconoscimento del principio natura, il cui cuore filosofico è costituito dalla “consapevolezza che l’esistenza e l’evoluzione della realtà fisica non hanno un’origine né un destino soprannaturali”. La saggezza del vivere e l’anelito di felicità devono dunque inevitabilmente improntarsi a una filosofia che soddisfi il criterio epistemologico di plausibilità. Questo approccio naturalista non esclude tuttavia un dialogo con chi invece si riconosce nel principio opposto, che presuppone una creazione divina. Quali possono essere le basi di un confronto basato su dati e ragionamenti plausibili? La disponibilità a rivedere le proprie tesi in presenza di nuove evidenze empiriche non sta forse da una parte sola?

Le due nozioni richiamate all’inizio della domanda svolgono un ruolo effettivamente imprescindibile nella definizione della mia proposta filosofica, ossia di una visione coerentemente naturalistica dell’universo e della natura umana che dell’evoluzione bio-cosmica è frutto e parte. Non solo: soltanto a partire dal principio natura e dall’epistemologia della plausibilità mi sembra praticabile anche il confronto che da naturalista post-religioso sono interessato a coltivare nella sfera pubblica con le donne e gli uomini che si fanno sostenitori di prospettive filosofiche diverse da quelle naturalistiche. Perciò anche in questo libro propongo e cerco di praticare quello che già nel mio precedente Dio e Darwin definivo un laico “dialogo della plausibilità”. Ogni altro confronto che non sia interessato alla ricerca del plausibile (ossia: a valorizzare il rispetto per i dati scientifici e per la produzione di ragioni valide) può essere anche mosso dalle migliori intenzioni, ma nella sostanza mi appare destinato a rimanere filosoficamente sterile.

Certo, la ricerca del plausibile risulta sempre impegnativa. Mette in crisi idee, valori e orientamenti etico-politici che le evidenze empiriche e una critica argomentazione dialogica rendono non più sostenibili. In questo senso, nel libro, provo a dimostrare che nella ricerca del plausibile viene alla luce la nostra saggezza, e nella chiusura dogmatica a ciò che è più plausibile la nostra stoltezza. A me sembra appunto che il naturalismo post-religioso e post-ideologico educhi più di ogni altra prospettiva filosofica a coltivare anche nella nostra sfera pubblica, sempre più culturalmente meticcia, una simile, costruttiva pedagogia della plausibilità. In ciò vedo risiedere anche lo stretto rapporto tra l’odierno naturalismo e la forza emancipatrice della laicità autentica, del rispetto del pluralismo, della crescita della libertà di ognuno di noi.

Quanto all’ultima parte della domanda: “non sta forse da una parte sola” la capacità di impegnarsi nella ricerca del plausibile e nell’eventuale revisione delle proprie tesi, risponderei così: da naturalista mi sento sempre impegnato a coltivare proprio una simile capacità, nella convinzione che la sua ricchezza umana può diventare significativa e feconda anche per chi, pur non essendo naturalista, non sia però fanaticamente propenso a sacrificarla a favore di pregiudizi dogmatici, vane speranze, visioni ideologiche della storia umana che in realtà si limitano a prendere il posto delle antiche fedi religiose. Ma quando è autentico, da ogni confronto — come anche da questa nostra conversazione — si esce sempre arricchiti e più consapevoli di se stessi e degli altri.

In proposito, lei sottolinea anche le aperture al confronto da parte dell’attuale pontefice. Papa Bergoglio non sembra tuttavia essere molto interessato alla teologia. Vien da chiedersi se è possibile un confronto filosofico con il mondo cattolico che prescinda dai teologi…

Non saprei se papa Bergoglio sia o non sia interessato alla teologia, anche se un qualche discorso razionale su Dio e sulla propria fede (teo-logia, appunto) costituisce sempre il presupposto di ogni esperienza religiosa non ciecamente fideistica. Mi sembra però che le sue aperture — poichè, almeno fino ad ora, è di aperture che è corretto e prudente parlare — vadano in una direzione ben diversa dall’autentica rotta di collisione con la modernità perseguita dalla teologia del suo predecessore. Se, per limitarci a qualche esempio, le polemiche antidarwiniane e la pretesa, cara al cardinale Ruini e a papa Ratzinger, che la teologia cattolica sarebbe addirittura l’unica depositaria e custode della dignità umana, se questa arroganza teologico-metafisica della gerarchia è alle nostre spalle, anche il pluralismo della nostra sfera pubblica e lo stesso confronto tra sostenitori del principio natura e sostenitori del principio creazione ne trarranno giovamento. Senza dimenticare che questo principio e la testimonianza di fede che esso ispira anche a tante cittadine e cittadini del nostro Paese, sono ben lungi dal costituire una sorta di proprietà o, ancor meno, di monopolio della gerarchia cattolica.

La seconda parte del testo è dedicata alla sua proposta filosofica, una “etica dell’ecoappartenenza” che sia “in grado di educarci finalmente al possibile buon uso terreno delle nostre capacità naturali e a mettere al servizio di ogni concreto impegno etico tutta la nostra saggezza”. Nelle pagine seguenti cita volentieri anche il pensiero di Bruno, Epicuro, Orazio… Negli ultimi secoli, quali passi ha compiuto la specie homo sapiens per procedere su una strada di ricerca che ha origini tanto nobili e antiche? Qual è l’ambito che, a suo modo di vedere, deve essere coltivato con maggior dedizione negli anni a venire?

Il naturalismo è una prospettiva che affonda le proprie radici lungo tutta la storia della filosofia e della scienza occidentali. Come testimoniano anche i nomi citati nella domanda e ai quali mi piace sempre aggiungere quello del nostro Leopardi, tanto amato quanto poco ascoltato dalla nostra tradizione culturale. Ancora oggi questi autorevoli sostenitori del principio natura hanno molto da insegnarci quanto a ricerca di saggezza e felicità terrene. Il naturalismo ha spalle larghe e radici ancora ben fertili e fruttuose.

A me pare tuttavia che noi odierni naturalisti abbiamo quasi una specie di privilegio: la comunità scientifica ci offre ogni giorno conoscenze nuove e in grado di rendere sempre più plausibile il critico superamento di ogni indebito ricorso al soprannaturale. In questo senso, mi sembra che uno degli eventi decisivi di tutta la modernità sia costituito proprio dalla rinascita dell’idea di natura di ascendenza presocratica, in alternativa all’idea di creazione di ascendenza biblica. Noi siamo gli eredi di questa rinascita moderna della naturalità del mondo e dell’uomo. Una rinascita indubbiamente complessa e contrastata dai difensori e dagli epigoni della tradizione platonico-cristiana, ma che solo pregiudizi teologici e crociate anti-naturalistiche possono far derubricare a mero scientismo, nichilismo etico-antropologico, polemica ideologica contro le fedi e le chiese.

E tuttavia, e qui mi rivolgo a chi naturalista dice di esserlo: essere eredi significa anche che il compito principale che oggi siamo chiamati ad assolvere da sostenitori del principio natura è proprio quello di definire e praticare finalmente e in positivo l’approdo etico di un naturalismo non solo metodologico ma anche filosofico. Come dire: definire e testimoniare la nostra capacità di saper vivere e morire senza protesi soprannaturali e avvicinandoci sempre più a quella “saggezza della felicità possibile” cui appunto è dedicata tutta la seconda parte del libro.

Il libro contiene una riformulazione eudemonistica della regola aurea: “fai per la fioritura della felicità degli altri tutto ciò che ritieni possibile e vorresti fosse fatto per la fioritura della tua felicità”. Cosa risponde a chi ricorda il rischio — presente nella stessa regola aurea — che si corre quando qualcuno è così convinto di sapere cosa si debba fare “per il tuo bene” da volerlo imporre a tutti?

In ossequio all’epistemologia della plausibilità, io provo innanzitutto a definire la capacità di Homo sapiens di produrre cultura e valori etico-politici ispirati a questa regola, non a caso presente in ogni cultura e valorizzata dallo stesso Darwin. Declinarla nei termini eudemonistici che anche voi avete appena ricordato mi sembra la conclusione più plausibile di un’etica dell’eco-appartenenza effettivamente emancipata da aneliti e da rimpianti di felicità soprannaturali. La ricerca di felicità, saggezza, virtù e amicizia (l’eudaimonia classica così mirabilmente definita e insegnata già da Epicuro) mi sembra più plausibile della ricerca di potenza caldeggiata da un naturalista moderno del calibro di Nietzsche, che alla fine proprio con Epicuro finì per polemizzare, come spero di aver efficacemente dimostrato. A mio parere, ricerca della propria felicità, sensibilità per ogni sofferenza e concreto impegno a favore anche della felicità degli altri, sono strettamente legati.

Capisco il rischio che siano gli altri a voler imporre a noi quello che sarebbe il nostro bene. Ma francamente è un rischio da cui proprio l’antropologia e l’etica dell’eco-appartenenza ci mettono due volte al riparo: esse, se coerentemente ispirate alla plausibilità del naturalismo moderno e al superamento di ogni imposizione agli altri delle proprie — e spesso presunte — Verità, ci dissuadono sia dall’imporre che dal subire anche qualsiasi bene-felicità che non abbia la libera approvazione di ognuno. Mi è difficile immaginare una plausibile ricerca di saggezza, felicità e solidarietà che non vada di pari passo anche con la tutela e la valorizzazione della libertà di ognuno.

Lei non lesina critiche al pensiero naturalista quando si limita a negare il teismo. È una posizione che anche l’Uaar fa propria. Come lei ricorda, già Nietzsche sosteneva che “colui che li attacca [i preti] finisce facilmente per contaminarsi”. Cosa che finì del resto per fare lo stesso filosofo. È una deriva a cui è impossibile sottrarsi? E come occorre agire per assumere costantemente atteggiamenti definiti in positivo?

In questa domanda vedo culminare un po’ tutto il senso della nostra discussione: il mio libro propone sicuramente, come il titolo eloquentemente recita, un elogio della felicità possibile, ben sapendo che la saggezza e la felicità non si prescrivono: di esse i naturalisti testimoniano la sobria e piacevole ricerca. Ma appunto: è questa ricerca che è tempo di elogiare, tanto più di fronte alle sfide ecologiche e bioetiche in cui tutti ci ritroviamo coinvolti.

Mi sembra infatti che l’odierno naturalismo si voterebbe a un ruolo subalterno se, dopo secoli di illuminismo moderno, si mostrasse in grado di definirsi soltanto come negazione del teismo: come a-teismo militante. Ovviamente, il superamento del teismo costituisce un aspetto ineludibile di ogni naturalismo che non si limiti a riproporre una qualche acritica contaminazione tra principio-natura e principio-creazione. A cominciare dall’ossimoro, così caro a teologi e metafisici cattolici, natura-creata, fino alle varie versioni del panteismo. Ma il naturalismo di cui siamo eredi ha già ampiamente assolto questa pars destruens dell’emancipazione moderna dal teismo, dalla metafisica e dalla secolarizzazione delle loro Verità e dei loro Valori. E certo non è un caso se persino la teologia cosiddetta “adulta” sia giunta da tempo a riconoscere che una visione naturalistica del mondo, dell’uomo e dello stesso sentimento religioso è del tutto plausibile. Esemplare a riguardo è la difesa dell’etsi deus non daretur da parte di un teologo protestante dell’importanza di Dietrich Bonhoefferr.

Noi odierni sostenitori del principio natura dobbiamo assolvere dunque un compito che non è né ingenuamente prescrittivo e né “soltanto” distruttivo, ma è plausibilmente propositivo e costruttivo. È un compito che insomma coincide col nostro saperci collocare non più contro, ma oltre ogni visione teologico-metafisica, educandoci così anche a definire e praticare tutta la felicità terrena che qui e ora, nel nostro presente, possiamo godere con saggezza e solidarietà. Perciò un intero capitolo è dedicato alla rivendicazione della “umana saggezza del presente”: della nostra capacità di saper vivere e morire senza confidare in alcuna futuristica felicità ultraterrena. E tanto meno in quella promessa dal principio speranza.

È nella realizzazione di un simile approdo etico che mi sento impegnato. Le polemiche di retroguardia contro la religione e le nostalgie del sacro (le ombre di Dio così ben smascherate da Nietzsche) sono ormai alle nostre spalle. Come lo è anche, giova precisare, il naturalismo da volontà di potenza verso cui Nietzsche sentì di dover indirizzare il proprio superamento della bimillenaria menzogna della metafisica platonico-cristiana. A me interessa non l’accrescimento dell’umana potenza, resa oggi ancora più insidiosa dal possibile uso mercantile delle biotecnologie, ma la fioritura e il sereno godimento della possibile saggezza e felicità di ogni essere senziente. Non è questo il senso della vita — l’umanesimo — che il principio natura ci consente di coltivare? Di più: ci educa anche a condividere alla luce della stessa regola aurea?

Questo articolo è stato pubblicato qui

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