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Egitto, il Fronte della legittimità fra protesta e repressione

I manifestanti dalle magliette gialle col simbolo delle quattro dita che indica la strage dell’agosto scorso presso la Moschea Rabaa sono tornati nelle strade del Cairo a chiedere quella legalità che il golpista Al-Sisi gli nega. Sono stati accolti dai sassi del fronte anti Fratellanza che unisce nostalgici di Mubarak e quelle forze democratiche come Tagammu in prima fila nel promuovere la messa al bando della Confraternita accusata di “terrorismo”.

Il Tribunale degli Affari Urgenti recentemente ha avallato la richiesta confermando ciò che i militari di Al-Sisi avevano già fatto: uccisioni, prigionia, persecuzione non solo dei vertici ma di tanti militanti della Brotherhood. Venerdì i gruppi che rivendicano la legittimità della presidenza Mursi hanno cercato di riconquistare una visibilità nella simbolica piazza Tahrir, la polizia glielo ha impedito coi lacrimogeni e gli immancabili colpi d’arma da fuoco che hanno ucciso tre manifestanti. Un altro è morto negli scontri con la fazione contraria alla Fratellanza. Secondo il Ministero della Salute oltre una ventina sono i feriti, sebbene chi era in strada sostenga che fossero molti di più. Sono ricomparsi i gas velenosi e paralizzanti e tutto l’armamentario della repressione conosciuta nelle scorse settimane.

 

A tenere alta la tensione concorrono episodi oscuri, e sempre violenti, che si susseguono. Come gli assalti a figure note, ad esempio l’accoltellamento del portavoce del Partito Costituzionale di El Baradei, che sembrano studiati ad arte per addebitare la responsabilità agli attivisti islamici. Insomma pare proseguire l’opera dei baltagheyah e d’infiltrati provocatori che ha rappresentato il filo rosso srotolato dai mubarakiani e dai vertici militari in tanti episodi oscuri: l’assalto dei cammellieri ai manifestanti di Tahrir nel febbraio 2011, il massacro del Maspero nell’ottobre dello stesso anno contro i copti, la strage dello Stadio di Port Said nel febbraio 2012, passando per brevi rapimenti o pestaggi (il più noto quello subìto da Abol Fotuh nell’aprile 2012). E’ una tattica consolidata che mescolando terrore, diffusione di insicurezza e instabilità conduce quella parte della cittadinanza inerte a rifugiarsi nel porto sicuro di un nuovo raìs magari vestito della divisa. E’ una mossa che sta pagando e riporta il Paese al periodo precedente il 25 gennaio 2011. Per ragioni di sicurezza dal 3 luglio scorso (data del golpe bianco di Al-Sisi) vige il coprifuoco.

Da fine agosto, dopo la sanguinosa repressione dei sit-in di protesta contro quel colpo di mano, il rientro in casa è stato posticipato alle 23, ma la capitale che vive molto all’aria aperta le lunghe serate estive si è sentita soffocata, non solo nei costumi ma nello stesso commercio minuto che avviene appunto a tarda sera quando il lavoratore per svago o necessità gira fra le miriadi di bancarelle diffuse in molte strade centrali e periferiche. Le proteste di venerdì si sono estese anche a zone della capitale non lontane dal centro come Dokki e piazza Rabaa Al-Adawiya, ormai tristemente simbolica per il tanto sangue versato dai supporter della Confraternita.

La polizia le ha stroncate ovunque, non lesinando forze (migliaia di agenti) e mezzi (autoblindo) che continuamente entrano ed escono dalle caserme che circondano il centro cittadino. Coinvolti anche altri distretti egiziani: quelli sempre in fermento di Alessandria e Suez, più i governatorati di Sharqiya e Gharbiya. Slogan e canti hanno assunto un acceso carattere antimilitarista, superando il sempiterno richiamo alla grandezza di Allah. Ovviamente con l’aria che tira nei confronti di militanti e simpatizzanti islamici scendere in piazza è a rischio elevatissimo. Visto quel che è accaduto a Mursi e Badie.

 

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