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Dov’era Dio ad Auschwitz?

Dov’era Dio a Auschwitz? La domanda sale al cielo lacerante ed inquietante. Il dovere della memoria impone di non fare sconti e di non semplificare la storia: di qua i buoni, di là i cattivi. La “zona grigia” del male, la sua banalità è quanto di più terribile abbia escogitato il Male. E il suo contagio ancora oggi miete vittime.

DOV’ERA DIO AD AUSCHWITZ? – Sono stato ad Auschwitz due volte. La prima volta nell’agosto del 1991. Si celebrava la Giornata Mondiale della Gioventù il 14 e 15 agosto a Częstochova. Un meeting giovanile che andava ben al di là del suo valore religioso.

Da appena due anni era caduto il muro di Berlino. Ed era la prima volta che migliaia di giovani europei dell’est e dell’ovest potevano incontrarsi. Un’autentica marea umana si riversò nella grande spianata di fronte al santuario della Madonna Nera.

C’era un gruppo musicale di ragazzi russi che suonavano tristissime melodie per raccogliere qualche soldo. Non erano cattolici, ci spiegarono: qualcuno tiepidamente ortodosso, qualcun altro indifferente o agnostico. Ma avevano messo da parte i loro risparmi per un anno per poter partecipare. Enorme era difatti la voglia di incontrare e incontrarsi al di là della cortina di ferro.

Ma alla frontiera tutti i loro poveri risparmi erano stati sequestrati. Esportazione illecita di capitali all’estero, la motivazione formale. In realtà un tentativo di dissuasione. Ma la loro voglia di saltare il muro era stata più forte dell’ottusa burocrazia, e così si arrangiavano alla meglio per racimolare qualcosa.

La tappa ad Auschwitz era dunque una stridente nota stonata in quelle giornate che parlavano di integrazione e incontro tra i popoli. Un luogo di morte ad appena 97 km dal santuario di Częstochova. L’icona sfregiata della Madonna Nera avrebbe dovuto farmi capire. Invece ero totalmente impreparato. Non basta leggere di Auschwitz. Devi andarci per sapere.

Ricordo come fosse oggi il momento in cui abbiamo attraversato il cancello sotto la sarcastica scritta Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Un momento immortalato in non so quale giornale polacco, perché ci chiesero di poterci fare una foto mentre passavamo al di là. Impresso, ancor più che nelle lastre fotografiche, nelle profondità nell’anima. Inciso come una lacerazione interiore.

Passare al di là, fu proprio questa la sensazione: di andare al di là dell’umano, nel regno delle Tenebre, di compiere un viaggio di non ritorno. Il tuo piede si era appena posato su quella terra maledetta e subito ti avvolgeva un’aria pesante, pregna di Male. Lo sentivi vaporare maligno dal suolo, soffocante, nauseante, insoffribile. Alberto, l’amico siciliano con cui avevo intrapreso il viaggio, si accovacciò per terra. «Non ce la faccio», mi disse, con uno sguardo che chiedeva pietà. «Io torno indietro. Vai tu».

LA CATTIVA COSCIENZA – Spesso ci si chiede come mai una così immane tragedia umana sia potuta accadere, come mai la barbarie abbia trovato un fertile terreno di coltura nella civilissima Germania, la patria di Goethe, Hegel, Beethoven, e ancora nel primo dopoguerra sede di una vivacissima cultura d’avanguardia.

Penso sia un errore di valutazione attribuire alla follia ciò che è frutto di una metodica programmazione della ragione. Può servire a esorcizzare, malamente, i fantasmi della nostra cattiva coscienza, ma non aiuta a capire. Perché Auschwitz è un esperimento scientifico perfettamente riuscito. Un luogo di morte, in cui tutte le risorse sono state ottimizzate al massimo per ottenere il fine previsto.

Arrivato al muro delle fucilazioni, ti accorgi che in entrambi i lati si aprono delle finestrelle che rivelano dei sotterranei. Sono le stanze delle torture. Così, i torturati potevano sentire, venire da sopra, gli spari delle fucilazioni, e i fucilati, da sotto, le grida di quei corpi straziati. Auschwitz è la soluzione finale di un piano razionale di annientamento di un intero popolo. Condotto con scrupolo e precisione ossessivi: tutti i deportati debitamente schedati e numerati. Il processo di distruzione della persona umana fu perseguito scientemente e scientificamente.

LA ZONA GRIGIA – Spiega Primo Levi, in quello che è il suo testo più significativo, certamente uno dei più istruttivi di tutta la letteratura concentrazionaria, I sommersi e i salvati, che non si puntava solo alla destituzione fisica: si voleva l’annichilimento delle anime. Sinistramente emblematico il caso delle cosiddette Squadre Speciali, i “corvi del crematorio”, in maggior parte ebrei.

Levi elenca minuziosamente i loro compiti:

A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi.

«Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo», spiega Levi: «dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi».

Un sottile capolavoro di perfidia, per poter dire: «Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre». Levi non autorizza affatto a giudicare questi «miserabili manovali della strage»: «è indubbio che di morte dell’anima si tratta; ora, nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi».

LA BANALITÀ DEL MALE – Il filosofo francese Paul Ricoeur in La memoria, la storia, l’oblio, si chiede se accanto a una memoria felice possa convivere un oblio felice, che faccia i conti col passato, pagandone i debiti insoluti e aprendosi, se possibile, all’esperienza del perdono.

Il debito col passato impone, secondo Ricoeur, di non dimenticare gli orrori, il male inaccettabile, e di riparare al male non già modificando la storia – che essendo stata non può più non essere stata – ma facendone memoria e chiedendo perdono. Senza che qualcuno si senta esonerato da questa azione di espiazione collettiva.

Il dovere della memoria impone infatti di non fare sconti e di non semplificare la storia: di qua i buoni, di là i cattivi. La “zona grigia” del male, la sua banalità, come ha dimostrato Hannah Arendt, è quanto di più terribile abbia escogitato il Male. E il suo contagio ancora oggi miete vittime.

Le SS naziste non erano geni del male, ma travet puntigliosi e padri modello. Esattamente uguali alla gente di fuori. E difatti si giustificarono affermando di avere eseguito gli ordini, come fa un cittadino esemplare. Ma “quelli di fuori” non si accorsero di nulla? Non percepivano le folate di fumo acre e non vedevano piovere cenere dal cielo? Non sentivano dai convogli sigillati i lamenti e le grida di un’umanità reietta?

Come Ponzio Pilato preferirono girarsi dall’altra parte e lavarsi le mani, sperando di lavarsi anche la coscienza. Avrebbero potuto salvare il crocifisso, ma non vollero. Non siamo autorizzati a giudicare ma a ricordare. La tentazione di non vedere è dentro ciascuno di noi. Ci abituiamo presto al Male.

La seconda volta che sono andato ad Auschwitz ho provato vergogna di me stesso. Mi sono accorto che l’esperienza non era così scioccante. Mi stavo abituando. L’assuefazione è il focolaio dove alligna latente Auschwitz. Non abbiamo visto a Sarajevo, non vediamo in Siria. Non vediamo i migranti in casa nostra, stipati come polli nei campi profughi, che ci ostiniamo a chiamare centri di accoglienza. Anche alle porte di Auschwitz la scritta era benaugurante. La deriva morale che lentamente scivola verso Auschwitz inizia da qui, da Ponzio Pilato.

DOV’ERA DIO A AUSCHWITZ? – Dov’era Dio a Auschwitz? La domanda sale al cielo lacerante ed inquietante. Tutta la teologia contemporanea si è interrogata sul pensare Dio dopo Auschwitz. Dove sei, mio Dio? fu il grido angosciato del crocifisso quel maledetto venerdì. Dov’è il tuo Dio? La stessa domanda la posero sprezzante i voyeur che stavano sotto la croce. Pilato l’aveva posta in maniera più filosofica: dov’è la verità? Ed anche lui non aveva ricevuto alcuna risposta da quell’uomo flagellato. Ma forse la risposta era in quella Presenza muta.

Il mio pellegrinaggio nel luogo del Male, impregnato di oscurità, ha avuto un solo momento di luce. Breve, ma intenso. Davanti alla cella di padre Massimiliano Kolbe il respiro mi si è fatto meno faticoso, come se fosse arrivata una brezza rinfrescante. «Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente», scrive Etty Hillesum, giovane e promettente scrittrice ebrea olandese. Uccisa ad Auschwitz nel 1943.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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