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Donne, differenze, io

Ammazzare le differenze è il risultato della distorsione fattuale ed ideologica, insieme, dell'Ego artefatto che trova piena cittadinanza nel sistema di vita sociale, indipendentemente dalle etnie che esso esprime, dalle subculture di genere che produce.

Le differenze – di qualsivoglia tipologia o con riferimento a variegati “oggetti” - non vanno intese come il risultato d'una sottrazione. Le controversie, le discordie, le liti, le violenze mai devono giustificarsi con l'idea dell' “altro” come “diminutio”.

Differenza. Voce dotta proveniente dall'inevitabile lingua latina (diffrèntia-m), da “diffèrre”, “portare (fèrre) da un'altra parte (dis-)”, che indica la qualità di chi, di ciò che è differente. Non c'è giudizio nell'asettica etimologia; fa pensare ad un insieme di elementi che differenziano qualitativamente o quantitativamente due o più persone o altro. Ci sono differenze di stato, di condizione, di grado, di gusto, di misura, di peso; si possono notare, rilevare le differenze, a volte è auspicabile annullare, altre volte è bene esaltare una notevole diversità. Non fare differenze è già un orientamento. È corretto trattare o considerare nello stesso modo le persone, piuttosto che ritenere a priori “uguali” o, viceversa, relazionarsi in modo differente perché sono, quelle stesse persone, su piani distinti ? Certo è che le differenze – di qualsivoglia tipologia o con riferimento a variegati “oggetti” - non vanno intese come il risultato d'una sottrazione. Le controversie, le discordie, le liti, le violenze mai devono giustificarsi con l'idea dell' “altro” come “diminutio”. Castiglione chiosa: «intervengono spesso differenzie tra gentilomo e l'altro, onde poi nasce il combattere» …

Altra attitudine è il “differenziare”, il distinguere, porre in risalto il magma identitario che soggettivamente si coglie e che rischia di costruire diaframmi, muri invalicabili, difese ostili. Accade quando le differenze diventano, nello sguardo personale, “diffidenze”, forme cristallizzate di estraneità. Accade d'agire così ai prigionieri dell'Ego, inclini all'incivile opera di costruzione ad hoc di distinzioni. Allontanarsi rispetto ad obiettive qualità comuni rimettendo ad altro tempo o sine die la quaestio dell'essere umano che “resti umano”, significa prolungare l'operare della sopraffazione, indugiare nel massacro sociale, nella gratuita violenza verso gli “altri”, compiere agguati delittuosi, uccisioni premeditate. Ammazzare le differenze è il risultato della distorsione fattuale ed ideologica, insieme, dell'Ego artefatto che trova piena cittadinanza nel sistema di vita sociale, indipendentemente dalle etnie che esso esprime.

Dentro la “categoria” del Noi c'è il genere, come ciò che è comune a diverse specie, ciò che contiene più specie differenti. Il Noi è, in qualche misura, sui gèneris. Non trascuriamo che “generare” è un'implicazione, la procreazione, dare l'essere naturalmente, come, muovendosi, il punto produce la linea e la linea una superficie, una superficie un solido. Nel mondo umano è impossibile l'abiogènesi.

Eppur si muore di differenze. Si muore per le differenze nelle grotte degli indiani dell'Arizona, nei villaggi lacustri della Nuova Guinea, nei rifugi degli esquimesi, negli accampamenti dei pelle-rossa, nelle tende degli indiani canadesi o della Patagonia, nelle tende dei nomadi africani, nelle case arabe, nelle abitazioni russe, nei padiglioni cinesi, nelle case tirolesi, olandesi, italiane, nei grattacieli statunitensi, nelle metropoli e cittaduzze europee, nelle foreste e deserti africani ed asiatici, nei templi di ogni culto. Bambine, adolescenti, mature donne, abusate ed uccise. È obbligatorio capire. Donne, fisicamente desiderabili, mai “ cosa garrula e fallace” (Tasso), semmai un “segno che ti fa piangere quasi” (Saba) con le qualità e caratteristiche fisiche , psichiche e comportamentali proprie, che, nella “parità” rivendicata, autonomamente s'emancipano e danno profilo universale a diritti civili e politici e a condizioni economiche e sociali riguardanti soggettività diverse.

Non so che cieli siano questi che sovrastano subculture maschili, maschiliste. Non so che colore abbiano queste acque nel tumultuoso tramonto d'un'altra epoca infame. Non so quali dolcezze possano scambiare, in queste rigide sere invernali, tra le pareti diroccate e strette di abitazioni alveari a schiera, le coppie che si “narrano” l'amore.

Ricordo mia madre, in questi giorni di dicembre, vicino ai fuochi accesi, sublimare l'attesa di uno sguardo, impastando dolci odorosi di marmellata d'uva e d'arance. Abbandonati i libri sul tavolo, accomunati dal fascio di luce d'una lampadina ad incandescenza, mi avvicinavo per vedere da presso la sua maestria e, dalle febbrili mani infarinate, alzavo il viso incontrando il suo sorriso severo, il suo intenso sguardo che mi ha trasmesso fierezza, gentilezza, onestà.

Ricordo il mare verde-azzurro spazzato dal vento o placido, ai miei occhi spazio silenzioso in grado d'accogliere le mie gesta d'amore, braccia e gambe mescolate, indaffarate, in spiagge deserte, in attesa del piacere sommo e dell'ascesa della luna. Le donne che ho amato le ho portate con me, in altre terre, tutte insegnandomi generosamente ad essere me stesso. Sui treni affollati, cercando e trovando sguardi, nei nebbiosi locali del buon vino e delle conversazioni, nelle vie metropolitane, nei luoghi “sacri” del lavoro e della cultura, il rito della conoscenza reciproca si è ripetuto. Un fiume capiente, la mia esperienza dell' “altra metà del cielo”.

L'incolore follia dei maschi parla una lingua che non comprendo: quella del “possesso”. Le “ho avute”, ma non sono mai state “mie”. La follia maschile contro le donne, individuale o del branco, causa di comportamenti disorientati e confusionari, rozzi e saccenti, mi urta: il mio volto, mai confuso con quello dei folli. Non ho velleità di supremazia; ho ricevuto esortazioni al “ruolo”: le ho respinte. La mia alcova sincera, le ha viste e rese serene, ed io son contento. In lontane città, alcune camminano con altri maschi al fianco, ma hanno me “dentro”. Non si tratta di nostalgia, tanto meno di “tradimento”, è solo manifestazione di un transitorio equilibrio raggiunto, poi smarrito, ma seguendo passi ordinati, tranquille vicende tra “diversi” che si incontrano senza mutare nel loro essere. Ogni mattino l'amico mare magnum mi da appuntamento; non resto nei piccoli porti, respiro l'odore degli oceani, delle solitudini oceaniche che incrociano altre affascinanti solitudini, veraci, non intimorite dalle sceneggiate d'amore. Cerco di conoscere. Conoscere è l'impresa più grande, una prassi di reciprocità che esclude la violenza e fa accettare la fatica dell'esplorazione perché è duro «salire e scendere per l'altrui scala» (Dante).

Quasi non c'è da credere nella possibilità di stuprare il femminismo. La polis ipocrita e perversa si veste di velenosa nebbia che oscura sempre più il sole con una coperta impenetrabile grondante sangue femminile. Il vento della rabbia, vedo, s'intensifica in me, ma non sembra innalzarsi collettivamente a sufficienza, non solleva altro che indignazione momentanea, per riapparire al prossimo lutto. A me piace il vento devastante. È solo un mio piacere ? Non si può solo andare ai funerali, non possiamo risolvere con ruvide carezze. Fiero della mia diversità maschile, fiero della mia diversità, perché so conoscere le donne. Fiero dei miei “incontri” con figure di donne, nella vita e non nei libri, frequentate mentre affrontano generosamente e contraddittoriamente il “sacrificio di sè” per salvare identità e dignità, così come mi è cara la capacità di ripudio di un femminismo, troppo silente in certi frangenti, che ti porta le pantofole quando torni a casa e aspetta, senza fantasia, la scontata prestazione che libera la forza racchiusa nei pantaloni. Come un viandante, ricco di esperienze, torno a me stesso, questo devo fare. Per tutte loro.

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