Diritto d’asilo anche per gli atei
La diffusione dell’incredulità nel mondo, in paesi dove non sono garantiti i diritti civili e dove la religione si impone attraverso normative restrittive, porta alla ribalta negli ultimi anni casi di atei e agnostici che subiscono violenze e arresti per il solo fatto di aver espresso le loro convinzioni.
In particolare nei paesi islamici, dove dichiararsi non credenti viene considerato atto blasfemo e offensivo verso la religione, punito dalle leggi confessionali (come avviene in Egitto, Indonesia, Bangladesh, Arabia Saudita, Tunisia). In alcuni paesi l’ateismo comporta la morte, come evidenziato dal Freetought Report curato dall’International Humanist and Ethical Union, organizzazione di cui fa parte anche l’Uaar, e da un utile contributo sul sito della Rationalist Association.
Ora per la prima volta un giovane ateo afghano ha ottenuto l’asilo politico in Gran Bretagna, dopo essere stato arrestato in patria per apostasia e aver rischiato la condanna a morte sulla base della sharia. Una decisione che apre la strada a una maggiore attenzione verso la tutela dei diritti degli atei che arrivano da paesi teocratici e vede esplicitamente riconosciuto il diritto di dichiararsi atei. Il giovane, di 23 anni, è cresciuto in una famiglia islamica trasferitasi in Gran Bretagna nel 2007. Il suo caso è stato seguito dalla Law Clinic, servizio gratuito dell’Università del Kent.
I legali hanno citato altri episodi, come quello di Abdul Rahman, convertito al cristianesimo e condannato a morte. Hanno fatto riferimento al pronunciamento della Corte Suprema del 2010 che definiva “irragionevole” il rimpatrio di un omosessuale in un paese dove essere gay è reato sulla base del fatto che potrebbe nasconderlo o essere “discreto”. Così Keith Splawn, studentessa di Giurisprudenza che collabora nella Law Clinic con avvocati esperti, spiega la strategia difensiva: “un ateo dovrebbe avere diritto alla protezione dalla persecuzione, nello stesso modo in cui una persona religiosa viene protetta”. La legale Sheona York, che ha seguito il caso, chiarisce: “La decisione rappresenta un riconoscimento importante del fatto che la mancanza di credenza religiosa è essa stessa una posizione filosofica ponderata e assunta in maniera seria”.
Sul Guardian Zoe Williams fa notare come questa sentenza sia un precedente molto importante proprio perché dà pari dignità ai non credenti. Se la libertà di religione è un diritto umano e viene tutelata dagli organismi internazionali, anche l’ateismo dovrebbe contare allo stesso modo. Purtroppo, ricorda Williams, ciò non è riconosciuto da tutti i paesi che vogliono dirsi “civili”. Il problema non è tanto causato dalla carente capacità degli atei di far fronte comune, quanto piuttosto dalla scarsa considerazione che la società ha generalmente nei loro confronti.
Questo si traduce nel favor religionisin ambiti come la scuola, spesso a causa dell’assordante pressing delle comunità confessionali. O nella pretesa inesistenza degli atei, per cui non si sentirà parlare di bambini “atei” né viene chiesto esplicitamente nei sondaggi (si parla eufemisticamente di assenza di affiliazione religiosa). I bambini invece vengono automaticamente etichettati come appartenenti a religioni già in tenera età, ebbene ciò sia improprio e loro non possano rendersene conto — come fa notare anche Richard Dawkins in una recente lettera al Times. Ma forse, conclude Williams, l’esclusione sociale è dovuta al fatto che i non credenti “non si lamentano abbastanza”.
La riflessione è interessante, perché di fronte a discriminazioni e negazioni della laicità nei paesi occidentali si sente dire invece che i non credenti si lamentano anche troppo, o vengono bollati come guastafeste. A sostenerlo sono persino certi atei, che non comprendono la necessità di organizzarsi per difendere i propri diritti, forse perché non toccati da determinate situazioni. E proprio questa noncuranza crea le condizioni che fanno rimanere in stato di minorità atei e agnostici, in un circolo vizioso.
Ma c’è sempre tanto da fare per un’associazione come l’Uaar in Italia, viste le segnalazioni che riceviamo quotidianamente, e all’estero. Di concerto con le organizzazioni internazionali, anche noi ci siamo ad esempio rivolti al governo italiano e ci siamo mobilitati per la portare all’attenzione dell’opinione pubblica il caso dei blogger atei in Bangladesh, tuttora detenuti, contro cui veniva invocata a furor di popolo la pena di morte.
Alla luce di tutto questo è importante tenere fermo un punto, come fatto nel corso del recente convegno organizzato dall’Uaar. Cioè che credenti e non credenti, nonostante le ovvie differenze, devono avere identici diritti. Se il diritto d’asilo infatti viene concesso in base alla Convenzione europea dei diritti umani e le decisioni della Corte di Strasburgo, nonché dai vari ordinamenti europei e nazionali, è inevitabile che debba essere garantito ovunque nel mondo occidentale anche per i non credenti che subiscono persecuzioni.
È comprensibile che ci sia molto battage sulla cristianofobia ed è indispensabile che anche i cristiani vengano difesi dalla violenza nei loro confronti, ma in un mondo sempre più secolarizzato, e dove persino nei paesi musulmani internet fa sì che emergano (e rischino la vita e la libertà) atei e agnostici, occorrerebbe analoga attenzione per i non credenti. La nostra associazione come sempre cercherà di fare il possibile, perché nel mondo c’è ancora tanto da fare per la difesa dei diritti di chi non crede.
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