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Deportazioni, respingimenti, cure negate. L’oppressione delle haitiane.

Mentre lungo la frontiera che separa Haiti dalla Repubblica Dominicana sono iniziati i lavori per la costruzione di un muro che, secondo quanto dichiarato dal nuovo presidente dominicano Luis Abinader, sarà dotato di sensori di movimento, telecamere biometriche, radar e sistemi a raggi infrarossi, da metà novembre il governo ha lanciato una massiccia campagna di detenzione ed espulsione di migranti irregolari che è sfociata nella deportazione di centinaia di donne haitiane gravide, in travaglio, o persino puerpere, con irruzioni degli agenti della Dirección General de Migración (DGM) nei principali ospedali del paese.

Le operazioni di rimpatrio, che proseguono giorno dopo giorno, fanno seguito a nuove misure restrittive disposte dal Ministero degli Interni tese a contenere gli ingenti flussi migratori provenienti da Haiti, in continuo aumento per via della forte crisi sociopolitica che ha investito il paese più povero del continente, soprattutto dopo l’uccisione del presidente Moïse nello scorso luglio. Ad inizio novembre, il Governo dominicano, aveva così annunciato la volontà di sospendere l’accesso ai servizi di salute pubblica agli haitiani irregolari e, in particolare, alle donne partorienti, ritenute responsabili di gravare in modo insostenibile sulle casse dello Stato. Allo stesso fine, era anche stato disposto il divieto di entrata nel paese a donne oltre il sesto mese di gravidanza. “Stiamo solo rispettando la legge sull’immigrazione”, aveva dichiarato pubblicamente Abinader in risposta alle prime critiche, trovando tuttavia la tenace – ma soprattutto etica - opposizione del Colegio Médico Dominicano (CDM), l’Ordine dei medici dominicani, che ha deciso di proseguire ad assistere le pazienti a prescindere dal loro status migratorio, affermando che “siamo medici, non agenti di polizia”. Di qui il cospicuo dispiegamento delle forze della Direzione Generale dell’Immigrazione e le incursioni negli ospedali pubblici per prelevare con la forza le donne haitiane, tradotte in un centro di detenzione alla periferia di Santo Domingo, talvolta insieme ai loro figli, e infine deportate oltre confine.

Movimenti, associazioni, collettivi, sindacati e personalità della società civile si sono subito mobilitati per denunciare quelle che vengono definite misure razziste e xenofobe, sottoscrivendo un documento intitolato “Le vite haitiane importano!” e appellandosi alla comunità internazionale. Da parte loro, organismi come la Comisión Interamericana de Derechos Humanos (CIDH) e la stessa ONU hanno espresso grande preoccupazione, chiedendo alle autorità dominicane di sospendere le operazioni in corso, già che “mettono a rischio l’integrità fisica e la vita delle donne gravide”, così da “ristabilire il rispetto per la dignità umana in applicazione alle politiche migratorie e di sicurezza in vigore”.

Le deportazioni in atto, di fatto, violano non solo la Legge Generale di Migrazione e il Protocollo di Intesa tra Haiti e la Repubblica Dominicana, secondo cui donne in stato di gravidanza, bambini, adolescenti, anziani e richiedenti asilo non possono essere soggetti a deportazione, ma violano la stessa Costituzione dominicana, secondo cui “la maternità, a prescindere dalla condizione sociale o dallo stato civile della donna, gode della protezione del potere pubblico e ha diritto ad assistenza in caso di bisogno” (Art. 55).

Il direttore della Direzione Generale di Migrazione Enrique García, tuttavia, non sembra curarsene, almeno stando alle sue ultime dichiarazioni: “Noi, in quanto nazione sovrana, abbiamo tutto il diritto affinché uno straniero che non rispetta le leggi dominicane debba lasciare il nostro territorio, e se non lo fa con le buone, lo fa con le cattive”. E ancora: “Se sei illegale io ti posso venire a prendere sotto il letto”.

Per gli haitiani e le haitiane, dunque, si prospetta un Natale assai cupo. 

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