Del “diritto” allo studio. Gli ostacoli alla meritocrazia
L’italico vizietto della dietrologia dei “diritti” è il vero ostacolo alla tanto sospirata meritocrazia.
Sulla dietrologia del diritto è riesplosa la polemica. Questa volta sono stati i test di selezione ad alcune facoltà universitarie a creare la ghiotta occasione. Così come già avviene in altri paesi, le facoltà di Medicina e Architettura di alcune Università della penisola hanno infatti cercato di ridimensionare, attraverso i test di ammissione, il numero esorbitante di aspiranti studenti. Un numero che mentre da un lato con buona probabilità non verrebbe poi assorbito dal mondo del lavoro, dall’altro rischierebbe anche di sovraccaricare le strutture di insegnamento. Da qui la contestazione serrata, sia sul metodo che sul merito della prova.
E pensare che da noi non si perde occasione per sbandierare a destra e a manca che il male oscuro del nostro paese è la mancanza di meritocrazia, cioè l’esasperato appiattimento che porta di fatto chi non merita a sopravanzare chi invece potrebbe fare molto meglio, con maggior vantaggio per la società. Ma la meritocrazia ha in sé il concetto di selezione, detta in altro modo, chi merita emerge, chi non merita sceglierà altre vie. La meritocrazia è sinonimo di impegno, sacrificio, determinazione, sudore e lavoro. Ma, magicamente, di fronte a queste responsabilità, la visione strategica del mondo evolve radicalmente, cambia lo scenario ed ecco spuntare l’asso nella manica, il mitico “diritto”. Per dirla in altro modo, secondo alcuni, una tale selezione porrebbe in discussione il sacrosanto diritto allo studio. Frettolosamente si mettono allora da parte i grandi concetti filosofici e avanza impetuoso il ben noto “qualunquismo”, il consueto italico vizietto della dietrologia dei diritti che fa scattare come d’incanto il concetto che “tutto a tutti” è meglio, è più democratico. Ovviamente gratis, o quasi. Tanto, si dice, la selezione verrà fatta comunque negli anni successivi.
Già, resta però da capire perché la collettività dovrebbe pagare per migliaia di studenti improduttivi che useranno aule, insegnanti, mense, biblioteche giusto per parcheggiarsi un paio di annetti, danneggiando di fatto chi fa sul serio, quelli che meritano insomma, anzi quelli che si assumono con serietà il sacrosanto dovere di meritarselo. E dico questo non a caso dal momento che nel nostro paese il tasso di abbandono degli studenti all’università è il più alto d’Europa. Sfiora il 20% nella struttura pubblica contro il 6% in Francia e il 9% in Inghilterra, tanto per fare qualche esempio. C’è anche da dire che la percentuale crolla al 6% nelle università private. Sarà forse un caso? Non credo, ma di certo è uno spreco sulle nostre tasse.
Ora è pur vero che l’organizzazione universitaria deve fare passi avanti nell’indirizzare meglio gli studenti, fornire più informazioni sui corsi, sulle materie trattate, gli sbocchi possibili affinchè ognuno possa meglio capire le proprie inclinazioni, ma siccome anch’io ho frequentato per un quinquennio l’università, posso senz’altro affermare che sono serietà e determinazione a fare la differenza e che la pratica del “parcheggio” è un fatto tanto reale quanto dannoso. E io, scusate, non sono affatto d’accordo, preferirei che quelle risorse venissero utilmente messe a disposizione di chi ne ha effettivamente bisogno, con borse di studio e migliori servizi. Astenersi perditempo insomma.
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