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Danilo Dolci: sognare a Borgo di Dio

Oggi sono 90 anni esatti dalla nascita di Danilo Dolci. Il Borgo di Dio, la comunità fondata da lui e alcuni pescatori nel 1952, è in grande agitazione. Amico, figlio del costruttore di questa comunità, è in grande movimento. Fa di tutto per rispettare i tempi di lavoro che si è dati, ma sono tante e tali le cose che deve fare che è costretto a incastrare gli orari come in un puzzle.

Non voglio mancare la ricorrenza. Puntuale come un soldato giapponese che ha ricevuto un ordine, alle 9 del mattino sono già sul posto. Posteggio la macchina sotto un enorme carrubo e a piedi mi incammino lungo la stradella, rimasta com’era al tempo in cui quattro muratori e lo stesso Danilo la percorrevano per costruire la prima casa sopra questa piccola collina. Vista stupenda. Da qui si vedono Trappeto, il mare e il Golfo di Castellammare.

Mentre salgo qualcosa mi attira. Una macchina bianca lasciata davanti la casa costruita con le sue mani da Dolci. Non cammina più da diciassette anni. C’ero stato dentro e mi viene un magone a vederla. La casa è rurale, artigianale, con un vago stile nordico. Luogo del suo riposo, delle pause dal suo peregrinare. Qui, il 30 dicembre 1997, emise l’ultimo suo respiro. L’edificio è seminascosto dal fogliame; la macchina è anch’essa ricoperta di foglie e un po’ sprofondata nella trazzera. Entrambe, quasi invisibili tra gli eucalipti, i gerani, un piccolo roseto. No. Sono semplicemente discrete, mute osservatrici del tempo e degli uomini che ora passano, ora non passano per qualche tempo per poi ritornare a passare. Qui per l’ultima volta gli occhi chiusi del maestro hanno sorriso, mentre pagavano il loro tributo alla morte, quando il seme cominciava a marcire per dare i suoi virgulti allo spuntare di nuovi giorni per il futuro.

Non m’importa chi ha restaurato una parte del Borgo, perché è Danilo che ha vegliato su tutto con quel suo sorriso delicato e reale, messaggero di simboli e di speranze. Ora la comunità “antagonista” a quella di Don Zeno Saltini, di Nomadelfia, comincia a rinascere con il suo volto di un tempo, dopo essere stata violata, profanata, distrutta, come tutte le cose che devono morire prima di rinascere, di emettere i loro nuovi germogli. Rivedo il film del sogno alla moviola: prima ci furono le povere case, per togliere dal freddo i bambini di Trappeto, poi sorsero i bungalow in legno e canne e, in ultimo, cominciarono a costruirsi le strutture del progetto del Centro di Formazione. Spartane, con un forte senso degli spazi comuni alla maniera di certe scuole svedesi, come quella elementare di Borlange, sopra Stoccolma, dove i cerbiatti entrano nelle classi e giocano con i bambini. Come avrebbe voluto Danilo, che questa volta avrebbe sorriso, felice.

Il complesso è frutto di un’idea: valorizzare lo scambio e il collettivo, i luoghi dell’incontro e del confronto. La realizzò progettualmente l’architetto Giorgio Stockel, allievo di Bruno Zevi, amico di Danilo come lo stesso Giorgio. Da qui sono passate generazioni di giovani e centinaia di grandi intellettuali come il poeta Mario Luzi, Lucio Lombardo Radice, Paulo Freire (morto anch’egli nel 1997), Paolo Sylos Labini, Ernesto Treccani, i Pontecorvo e via di seguito lungo un elenco interminabile.

Dunque, ora, il Borgo è vivo. Tutto sembra accadere per germinazione spontanea. Invece è la fede di Danilo che ottiene ciò che egli chiedeva alla Provvidenza: il pane quotidiano, il necessario per vivere. E il pane era per lui la crescita e l’azione necessaria a produrla, in modo non rituale, o virtuale, ma mediante una ricerca sempre più collettiva, partecipata, estesa al mondo. A partire da un punto. Un piccolo punto. Era tanto forte questo aspetto che legava l’azione alla fede e a un notevole ottimismo per il futuro che fu proprio Danilo a inventare la formula del contratto “A quannu chiovi”. Morale: bisogna agire ed essere sicuri che arriverà il momento in cui quello che hai fatto ti sarà ricompensato. Perché la Provvidenza non priva mai neanche un uccello del suo cibo, del suo futuro, della sua libertà.

Rivedo Cielo molto entusiasta della ripresa; En che ricordo piccolissimo in braccio a suo padre, come Sereno, Amico che si dà un gran da fare, Libera alla quale Grazia Honneger Fresco dedicò il primo racconto fatto da Paolino Russo e Toni Alia sulla storia del primo anno di vita del Borgo tra il 1952 e il 1953: la prima storia in Sicilia raccontata nel gergo dei marinai e che io riprendo per intero nel mio libro “Piantare uomini. Danilo Dolci sul filo della memoria”, pubblicato da Castelvecchi. Nulla accade per caso, a suo tempo. Ci sono anche Chiara e Daniela, le due bambine che vedevo gironzolare attorno alla scrivania del loro padre, in quello studio umido di Palazzo Scalia. Ora entrambe musiciste. Così gli occhi azzurri di queste due professioniste mi riportano indietro nel tempo quando a Borgo riecheggiavano le note di un clavicembalo, come un tempo antico o una farfalla tra gli ulivi che richiamano un desiderio impenetrabile, una melodia quasi barocca, una memoria silenziosa e produttiva che è anche la memoria del mio passato. Mancava l’amministrazione comunale di Partinico, nonostante i cinquant’anni di fatiche profusi da Danilo per dare alle campagne di questo paese quel bene prezioso che è l’acqua. Non una via o una piazza ne ricorda il nome. Così vanno le cose. Ma mi chiedo: una giunta definita “Doppio zero” può partorire qualcosa che sia una, una soltanto?

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