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Dal taglio delle tasse al rapporto deficit-Pil: coperte corte e lingue lunghe

Come noto, Matteo Renzi è impegnato in uno strenuo braccio di ferro con la Commissione Ue per ottenere la “flessibilità” necessaria di fatto a disinnescare le clausole di salvaguardia anche nel 2017. Come abbiamo più volte osservato, il premier si è messo spalle al muro da solo, col rinvio della resa dei conti per due leggi di Stabilità consecutive, ed ora ha bisogno di sconti fiscali protratti e reiterati, altrimenti sono guai. Sarebbero (saranno) comunque guai, per motivi più o meno facilmente intuibili che ribadiremo sotto, ma oggi vogliamo dedicarci all’analisi di alcune meravigliose idee di detassazione coltivate dal nostro esecutivo. Perché l’economia è e resta la “scienza” della coperta corta.

Il taglio di tasse, si diceva. Per il 2017 e 2018, questa sarebbe la lista della spesa di Renzi, all’incirca ufficiale: taglio Ires dal 27,5% al 24%; riforma dell’Irpef a favore dei redditi medi, tramite riduzione delle aliquote ed innalzamento della base imponibile dello scaglione d’imposta al 38%; introduzione della ormai mitologica flessibilità in uscita per le pensioni. Poi ci sarebbe la misura assai belusconiana della cancellazione del bollo auto, gemella di quella della Tasi prima casa, per populismo fiscale. A ben vedere, dal 2018 ci sarebbe anche da pensare al modo di introdurre una detassazione strutturale al posto della decontribuzione sulle nuove assunzioni, se vogliamo evitare una strage di posti di lavoro che diverranno improvvisamente troppo costosi per i datori di lavoro.

E veniamo alle coperture, si fa per dire. Nel 2017 il deficit-Pil italiano dovrebbe scendere all’1,1%. Ma per quale motivo? Essenzialmente, per l’attivazione delle clausole di salvaguardia. Anche il rapporto debito-Pil dovrebbe calare di oltre due punti percentuali, il prossimo anno, per lo stesso identico motivo, con buona pace dei proclami dell’esecutivo. Ovviamente, una simile botta di imposte indirette ammazzerebbe i consumi e peggiorerebbe in modo sensibile le prospettive di crescita, danneggiando tutte le metriche di finanza pubblica. Ma non preoccupiamoci di questo, per ora. Il buon Jean-Claude Juncker pare incline a permettere all’Italia di spingersi nel 2017 ad un deficit-Pil di 1,8%, recuperando lo 0,7% di deficit a “copertura”. Sono poco più di 11 miliardi di euro. Renzi, che è assediato da conti che non intendono tornare, vuole invece spingersi al 2,2% o fors’anche al 2,4%, cioè vuole un margine di almeno 17 miliardi. Che guarda caso sarebbero il necessario per poter mandare ministri e majorettes in tv a dichiarare che “abbiamo mantenuto la promessa: le clausole di salvaguardia sono state ancora una volta disinnescate”. E per ricavare margini per avviare gli altri “tagli di tasse”.

L’oggetto del contendere è tutto lì. Qualcuno azzarderà che Renzi potrebbe anche fare un piccolo sforzo sulla spesa pubblica, nel 2017, ma il nostro eroe ha scoperto che il taglio di spesa è recessivo (come dargli torto?) e nuoce gravemente ai sondaggi elettorali, “e comunque abbiamo già fatto una spending review di 25 miliardi”. E quindi? Quindi si ripropone il tema dell’utilizzo delle risorse fiscali fatto nei primi due anni del governo Renzi. Facciamo una rapida ricognizione: sono soldi spesi bene i 10 miliardi annui per gli 80 euro? Ed i 4 miliardi annui per azzeramento dell’imposizione sulla prima casa? Ed i miliardi per la decontribuzione a termine per i nuovi assunti? Risposta: no, tutti quei fondi potevano e dovevano essere destinati, da subito, a riduzione permanente del cuneo fiscale per lavoratori ed imprese, a riduzione della pendenza della curva Irpef per i redditi medio-bassi, a riduzione della tassazione Ires.

Invece, quello che abbiamo avuto sono stati interventi irrazionali, estemporanei, inefficaci ed inefficienti. Che ora presentano il conto. E non è finita: in questi giorni è assurto agli onori delle cronache e del chiacchiericcio politico l’idea di introdurre qualcosa di simile ai conti di risparmio presenti in molti paesi fiscalmente più civili del nostro. Cioè l’esenzione fiscale totale per piccoli importi risparmiati, con condizionalità. Nel caso specifico, la condizionalità sarebbe quella di investire per almeno cinque anni in fondi specializzati in piccole e medie imprese italiane ed europee (per non incorrere in infrazione per illegittimo aiuto di stato). Voci e vocine parlano di una soglia investibile di 10.000 euro, non è chiaro se complessivi o annui, in questo secondo caso ovviamente con un tetto da definire. Non male la nemesi, per un premier che appena arrivato al governo ha aumentato la tassazione delle “rendite finanziarie”, con rigorosa esclusione dei titoli di stato e f0ttendosene (scusate il francesismo) dei piccoli risparmiatori, del secondo pilastro previdenziale oltre che delle esigenze del settore privato di finanziarsi, sia a debito che con capitale azionario. Eh, ma era una cosa de sinistraricordate?

Anche per questi “conti di risparmio” serviranno coperture, in caso vi fosse sfuggito. Morale? Che l’economia è la scienza della coperta corta, che se avevamo comunque deciso di fare deficit per ridurre l’imposizione fiscale e rinviare la resa dei conti avremmo potuto farlo da subito a mezzo di interventi strutturali ed erga omnes di detassazione e non mediante azioni selettive e talvolta a termine, la cui efficacia in termini d’impatto sulla crescita si dimostrerà risibile.

Il problema è che quando la scienza della coperta corta incontra un giovanotto dalla lingua lunga, a rimetterci sono i cittadini ed il loro futuro.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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