Dal Tar della Liguria un’ulteriore legittimazione dei registri delle unioni civili
Una legge nazionale che finalmente regoli diritti e doveri dei conviventi non sposati sembra quasi una chimera. Le tante, troppe proposte succedutesi nel corso degli anni, l’ultima delle quali da parte dell’attuale premier Renzi, non hanno finora portato a nulla di concreto, complice l’ostruzionismo dell’ampio schieramento trasversale clericale.
Nel frattempo i matrimoni continuano costantemente a scendere, compensati da forme diverse di famiglia che chiedono, giustamente, il riconoscimento di diritti elementari. In un simile quadro, il problema non lo si risolve di certo mettendo la testa sotto la sabbia. Così, grazie alla potestà statutaria acquisita nel 1990, diversi comuni in tutta Italia hanno cercato di dare una seppur temporanea risposta ai cittadini istituendo i cosiddetti registri delle unioni civili.
Uno di questi comuni è quello di Genova. Il registro del capoluogo ligure è stato approvato un anno fa seguito, com’era logico aspettarsi, dalle reazioni dal mondo cattolico che certo non sono state di apprezzamento. Un’associazione cattolica chiamata “Essere Famiglia” ha quindi pensato di ricorrere al Tar per chiedere l’annullamento della delibera, insieme a due cittadini sposati per motivi che vedremo più avanti. Il ricorso si basava sostanzialmente su due punti: l’incompetenza dell’amministrazione comunale in materia di anagrafe, che quindi secondo loro non avrebbe proprio il potere di istituire un simile registro e il danno che ciò arrecherebbe alle persone che hanno scelto l’unione matrimoniale. Quest’ultima è la ragione per cui i due cittadini sposati si sono uniti, “di fatto”, al ricorso.
Pochi giorni fa i giudici amministrativi hanno dichiarato inammissibile l’impugnativa rigettando tutte le argomentazioni dei ricorrenti. Per il Tar il registro comunale non collide con la norma generale che riserva allo Stato le deliberazioni in materia di stato civile e non potrebbe essere altrimenti per il semplice motivo che non c’è nessuna variazione di stato civile. Piuttosto, il registro è accessorio rispetto all’anagrafe e il suo scopo è mettere in pratica il principio fatto proprio dallo stesso Comune nel suo statuto, che a sua volta deriva da vari pronunciamenti e perfino dalla Carta dei diritti dell’UE, secondo cui vanno rimossi gli ostacoli allo sviluppo della persona nelle formazioni sociali. Tutte le formazioni sociali. Comprese, quindi, le unioni di fatto.
Inoltre, il registro di per sé non può essere lesivo delle famiglie matrimoniali, anzi non le prende proprio in considerazione perché esse sono regolate da altre norme. Sostenere, per esempio, che il diritto ad assistere il proprio partner in ospedale è lesivo dello stesso diritto esercitato da un coniuge, sarebbe come dire che una persona con una birra in mano lede il diritto di un musulmano di non bere alcool. Anzi, proprio perché al momento non può essere ravvisato alcun danno oggettivo alle persone sposate, non c’è neanche legittimazione ad agire per i ricorrenti.
Tuttavia il Tar non si è limitato solo a respingere il ricorso, si è anche spinto a una considerazione sull’obiettivo del registro genovese e sugli scopi dell’associazione che ha impugnato la delibera comunale. Secondo il suo stesso statuto, infatti, l’associazione ha il fine di “promuovere e diffondere lo sviluppo della persona in ambito familiare e sociale”. Praticamente lo stesso meritorio fine del registro, né più né meno, senza neanche una specificazione che la famiglia che intendono sostenere è quella matrimoniale. Non solo: l’associazione dichiara di “avviare corsi di formazione e orientamento per genitori, figli, educatori, docenti, studenti”, tutte figure che, come la corte fa notare, sono tali a prescindere dalla loro appartenenza a una famiglia matrimoniale.
E come può l’associazione ricorrere contro un atto palesemente in linea con i suoi scopi sociali, senza vedere in ciò alcuna contraddizione? Va anche aggiunto che da statuto la suddetta associazione sarebbe perfino aconfessionale, ma probabilmente il suo concetto di aconfessionalità differisce dal nostro tanto quanto il suo concetto di famiglia differisce da quello dei giudici. E dal buon senso.
Chiunque è libero di ritenere la famiglia basata sul matrimonio come unica ammissibile secondo i suoi principi morali, ma la conseguenza non può essere quella di proibire ad altri una scelta diversa. Significherebbe negare libertà ad altri in nome della propria libertà. Lo stesso discorso vale per le scelte in tema di fine vita, di procreazione e così via. Certo, è probabile che concetti così ovvi, quasi banali, siano lontani dalla portata di chi si confonde anche rispetto ai propri stessi principi. Ma chissà. Magari con un piccolo sforzo in più…
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