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Dal Pci al Pd, ovvero il Partito di De Luca

C’è una parte della base (sia di iscritti che di elettori) del Pd che gli resta fedele, nella convinzione di stare sostenendo l’erede naturale del Pci. Una visione a metà fra il formalismo giuridico ed il pensiero magico-religioso: quel che non è dimostrabile per via di carta bollata è sorretto dalla fede in un qualche spirito che aleggia e vivifica le forme della materia. Un procedere a-logico per il quale potremmo dimostrare che Marcinkus è l’erede legittimo dei dodici apostoli e che Pisapia è l’erede di Ludovico il Moro.

Ovviamente, a giudicare in termini più laici e materialisticamente fondati, è molto facile dimostrare che si tratta di un immaginario totalmente campato in aria. Già il Pci, nell’ultimo decennio della sua vita, era diventato qualcosa che aveva ben poco in comune con un partito comunista ed era diventato una sorta di “socialdemocrazia orientale a centralismo burocratico”.

Poi il passaggio al Pds liquidò anche le forme di quella continuità, ma mantenne buona parte della base e del gruppo dirigente, appena spruzzati di qualche new entry. La composizione sociale restava più o meno la stessa e così anche alcuni elementi di cultura politica, purtroppo la parte peggiore di quella che fu del Pci: il culto del partito che ha sempre ragione, il cui successo coincide con il bene delle classi popolari e della nazione, la cui andata al potere è un bene in sé, a prescindere da quel che in concreto fa.

Nel periodo in cui fu più semplicemente Ds (perdendo la P di partito, ma non la boria autoreferenziale di partito) la composizione sociale iniziò a mutare, sostituendo gradualmente i ceti popolari (ed in particolare gli operai) con il ceto medio: prevalentemente il lavoro dipendente (essenzialmente il pubblico impiego) e una robusta fascia professionale che si sommavano al tradizionale insediamento cooperativo emiliano. Nello stesso periodo –soprattutto grazie alle segreterie D’Alema e Veltroni- la cultura politica d’origine andava via via scolorendosi e con essa anche il costume del partito. I Ds vissero di rendita dell’antiberlusconismo ma sempre più assomigliando al proprio nemico.

Il primo salto vero e proprio venne nel 2007 con la confluenza di Ds e Margherita nel Pd, qualcosa che, nel progetto di Prodi, voleva essere la fusione-superamento di Pci e sinistra Dc. In realtà un altro pezzo di vecchio Pci -dopo quello uscito con Rifondazione sedici anni prima- abbandonò il partito (anche se non ebbe poi fortuna) sostituito da un massiccio innesto di margheritini, in massima parte ex democristiani o appartenenti ad altri partiti di centro.

Inoltre, per favorire l’amalgama dei due partiti, più che elaborare una cultura politica nuova, ci si adoperò per stingere del tutto quelle di provenienza. Dunque, già a quel punto ci fu una soluzione di continuità pressoché totale dalla storia del Pci: già nel Pd la composizione sociale era totalmente cambiata a favore del ceto medio, la parte di iscritti provenienti dal Pci (anche per ragioni strettamente anagrafiche) era ormai minoranza, il gruppo dirigente manteneva una prevalenza di ex comunisti, ma ex comunisti sui generis, emersi negli anni ottanta, quando già il Pci, come abbiamo detto, non era già più un partito comunista.

Peraltro, la resa incondizionata ai dettami neo liberisti, insieme al senso di colpa di “essere stati comunisti” (si pensi alle dichiarazioni di Veltroni) rendeva quel gruppo dirigente quanto di più distante si possa immaginare dalla storia del Pci.

In questa costante rincorsa al “nuovo” (o preteso tale) verso il centro però, accadeva che la base elettorale si riducesse costantemente. Nel 1987, Pci e Psi ottennero complessivamente il 38% dei voti (senza calcolare le liste minori come Dp e Verdi), nel 1994 il nuovo Pds –che aveva ingoiato parte del Psi ormai di fatto dissolto- otteneva il 21%, sommandoci il 5 di Rifondazione il totale faceva quasi il 27%, cioè circa l’11% in meno della somma Pci-Psi di sette anni prima. Nelle politiche del 2001, i Ds ottennero il 16,57% e la Margherita il 14,52%, totale il 31,09%, nelle Europee di tre anni dopo, la lista unita dell’Ulivo (Ds e Margherita, con i socialisti e altri partiti minori) ebbe il 31,08% e nelle politiche del 2006 il 31,27%. Per la prima volta il risultato non segnava un regresso, ma neppure un’avanzata. Due anni dopo, l’Ulivo, trasformato in Pd, toccava il 33%, ma solo stritolando la sinistra radicale che piombò dall’11% di partenza al 3,5% circa. E nelle politiche del 2013, il Pd piombava al 25,4%. Dunque, la lista principale di sinistra (prima Pds, poi Ds, poi, Ulivo, poi Pd) sostanzialmente non si schiodava dal 25-30% (con la solitaria eccezione del 33% del 2008), che è stato sempre il valore del Pci (salvo le due eccezioni del 1976 e del 1984), restando comunque molto al di sotto di quel 38% di Pci e Psi del 1987.

Con Renzi le cose cambiarono: il Pd balzò ad un inedito 41% nelle europee dell’anno scorso. Ma questo avviene per il parallelo crollo del centro e della destra: nell’anno precedente la sommatoria del centro e della destra (area Monti più area Berlusconi) sommava quasi il 40%, nelle europee di un anno dopo scendeva al 31% ed il calo maggiore era del centro.

Ovviamente, è normale che un partito cerchi di espandere la sua area elettorale conquistando elettori di altri partiti, ma, di volta in volta, questo significa che gli elettori si sono spostati verso il partito o il partito ha modificato le sue posizioni in modo da “coprire” una area elettorale precedentemente non sua. Nella maggior parte dei casi si tratta di un avvicinamento reciproco, nel quale uno dei due si è spostato un po’ più dell’altro, ma più raramente accade che il partito abbia prodotto una sintesi politica che, senza modificare sostanzialmente la sua collocazione e la sua cultura politica, soddisfi la domanda di un’area precedentemente non sua.

Nel nostro caso, il Pd ha subito un processo di forte spostamento in due fasi: una prima fase i governi di ampia coalizione (Monti, poi Letta) che hanno stemperato la contrapposizione fra Pd e polo berlusconiano, legittimando il passaggio degli elettori da un polo all’altro e, siccome era Berlusconi a subire l’offensiva europea, questo incoraggiava gli elettori di destra a spostarsi verso il Pd senza rinunciare alla propria identità politica. Poi l’arrivo di Renzi (sul quale Berlusconi aveva espresso ripetutamente giudizi positivi) legittimava ulteriormente questo spostamento. Ma, soprattutto, era il fallimento della lista Monti a porre le premesse per un massiccio afflusso elettorale verso il Pd.

La politica del governo Renzi ha dato la netta e non infondata sensazione che fosse il Pd a spostarsi su posizioni di centro e di centro destra.

Nello stesso periodo la sempre maggiore partecipazione di esponenti locali del Pd alla pratica corruttiva ha completato la mutazione genetica in atto.

In un anno il 25% degli iscritti non ha rinnovato la tessera (ed è facile intuire che nella maggior parte dei casi siano stati fautori di Bersani, Cuperlo e Civati), poi le inchieste hanno rivelato un retrobottega maleodorante di “comitato d’affari”. Il rapporto di Matteo Orfini sulla situazione del partito a Roma ha descritto un quadro desolante di tesseramento gonfiato, di contiguità con ambienti di malavita, di clientelismi vari. Poi Cofferati ha denunciato brogli e falsi nelle primarie liguri vinte dalla Paita.

Ora la formazione delle liste, con il massiccio afflusso di camorristi, fascisti, berlusconiani, inquisiti e pregiudicati vari, non fa che rendere definitivo questo quadro. Il Pd non è più neppure quello del 2007. Si chiama Pd, ma nel senso di Partito di De Luca.

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